L'illegittimità dei respingimenti verso porti non sicuri
1. La sentenza su specificata definisce, in sede di giudizio abbreviato, la nota vicenda dei migranti che nel luglio 2018 si erano opposti con la minaccia dell’uso della forza al loro rimpatrio in Libia da parte della nave commerciale italiana che li aveva soccorsi, costringendo il capitano della stessa ad invertire la rotta e condurli verso le coste italiane. Il Tribunale ha riconosciuto in capo ai due migranti individuati dalla pubblica accusa come capi della ribellione – e in tale veste chiamati a rispondere in concorso dei reati aggravati di violenza o minaccia e resistenza a pubblico ufficiale (artt. 336, 337 e 339 c.p.) e di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione irregolare (art. 12 co. 3 d.lgs. 286/1998) – la causa di giustificazione della legittima difesa. 2. Questi i contorni essenziali della vicenda. Il rimorchiatore Vos Thalassa, battente bandiera italiana e adibito alle attività di supporto di una piattaforma petrolifera libica, comunica l’8 luglio 2018 alle competenti autorità italiane (MRCC: Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo) di avere soccorso più di 60 migranti presenti a bordo di un piccolo natante in legno in procinto di affondare; la comunicazione viene inoltrata dal MRCC alle autorità libiche, che non forniscono tuttavia alcuna risposta. In mancanza di attivazione da parte libica, il MRCC di Roma invita in un primo momento il comandante della Vos Thalassa a fare rotta verso Lampedusa. In seguito, tuttavia, il comandante chiama nuovamente le autorità italiane, riferendo di essere stato contattato dalla Guardia costiera libica (GCL), che gli ha ordinato di dirigere l’imbarcazione verso le coste africane, al fine di effettuare il trasbordo dei migranti su una motovedetta libica. La nave si dirige allora verso sud, in direzione del punto di incontro indicato dalle autorità libiche, ma dopo poche miglia la situazione si fa difficile. Uno dei migranti si accorge infatti che la nave ha cambiato rotta e si sta dirigendo verso le coste libiche, e tale circostanza fa sorgere uno stato di grande agitazione tra i migranti, che si rivolgono in modo minaccioso ai membri dell’equipaggio presenti sul ponte, chiedendo loro di invertire la rotta e non riportarli in Libia. I due imputati, in particolare, si pongono a capo della protesta, e con contegni aggressivi esprimono l’assoluta contrarietà di tutti i migranti presenti sulla nave al ritorno in Libia. Il comandante segnala la situazione di pericolo alle autorità italiane, chiedendo l’invio di un’unità militare che possa garantire la sicurezza dell’equipaggio; dopo momenti di grande tensione, l’MRCC si determina infine ad inviare sul posto un’unità navale della Guardia costiera, che prende a bordo i migranti e li porta in Italia. I fatti appena riassunti trovano in buona sostanza conferma tanto nelle dichiarazioni dei membri dell’equipaggio, quanto in quelle degli imputati e degli altri migranti sentiti dalle autorità inquirenti. In verità, i racconti divergono quanto al contenuto delle comunicazioni intercorse tra i migranti e i membri dell’equipaggio; comunicazioni che, nell’impossibilità di una comprensione reciproca a causa delle insormontabili difficoltà linguistiche, erano state veicolate da gesti e contegni materiali. Secondo i membri dell’equipaggio, i migranti avevano minacciato di tagliare loro la gola se la nave avesse continuato la rotta verso la Libia, mentre i migranti sostengono che il gesto di passare una mano sotto la gola non stesse a significare una minaccia nei confronti dell’equipaggio, ma fosse un modo per indicare i rischi per la loro vita cui gli stessi migranti sarebbero stati esposti qualora fossero stati riportati nei campi di detenzione libici. In ogni caso, gli stessi migranti confermano di essersi opposti con decisione alla prospettiva di essere riportati in Libia, senza negare di avere tenuto quei comportamenti materiali che erano stati percepiti come direttamente minacciosi della loro integrità fisica dai componenti dell’equipaggio. Sulla base dei fatti ricostruiti all’esito dell’istruttoria, il Tribunale non ha dubbi nel valutare che sia “indiscutibile che le azioni delittuose indicate nei capi di imputazione siano state poste in essere dagli imputati”. Senza necessità di ulteriori motivazioni, la sentenza ritiene sussistenti tutti gli elementi oggettivi e soggettivi dei reati contestati, e si concentra da subito sulla questione centrale del processo, ovvero sulla questione della sussistenza o meno in capo agli imputati di una causa di giustificazione. A differenza poi che nelle ipotesi di favoreggiamento dell’ingresso irregolare addebitato ai migranti o ai soccorritori, ove la causa di giustificazione solitamente invocata dalla giurisprudenza per scriminare tali condotte è lo stato di necessità, nel caso di specie il Tribunale ritiene sussistente la legittima difesa, che si differenzia dalla scriminante ex art. 54 c.p. poiché “in questo caso viene offeso l’aggressore, mentre nello stato di necessità persona offesa è un estraneo”. 3. La sentenza si sviluppa dunque intorno all’analisi circa la sussistenza dei diversi requisiti posti dall’art. 52 c.p. a fondamento della legittima difesa. L’attenzione si concentra innanzitutto sul “diritto posto in pericolo”. Il Tribunale ricorda come i diritti che sarebbero stati posti in pericolo dal rinvio dei migranti in Libia (il diritto alla vita e all’integrità fisica) “sono diritti assoluti che spettano alla persona in quanto tali”, e trovano fondamento nell’art. 2 Cost. e in una vasta serie di fonti sovranazionali, tra cui in particolare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il Tribunale passa poi ad analizzare “le norme internazionali sulla questione della ricerca e del salvataggio delle persone in mare”, ed individua nella Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982, nella Convenzione di Londra per la salvaguardia della vita in mare del 1974, e soprattutto nella Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il salvataggio in mare (SAR) del 1979, i testi fondamentali di riferimento, da cui emerge “un obbligo di salvataggio in mare della vita umana”, obbligo che a sua volta comporta il “dovere di individuazione di un porto sicuro dove sbarcare le persone”. Proprio la nozione di “porto sicuro” è oggetto di uno scrutinio particolarmente attento da parte del Tribunale, che sottolinea come “laddove le persone soccorse in mare, oltre che ‘naufraghi’, si qualifichino – in termini di status – anche come ‘migranti/rifugiati/richiedenti asilo”, soggetti quindi alle garanzie ed alle procedure di protezione internazionale, l’accezione del termine ‘sicuro’ (riferita al luogo di sbarco) si connota anche di altri requisiti, legati alla necessità di non violare i diritti fondamentali delle persone, sanciti dalla norme internazionali sui diritti umani (…), impedendo che avvengano ‘sbarchi’ in luoghi ‘non sicuri’, che si tradurrebbero in aperte violazioni del principio di non-respingimento, del divieto di ‘espulsioni collettive’, e, più in generale, pregiudizievoli dei diritti di ‘protezione internazionale’ accordati ai rifugiati e richiedenti asilo”. Chiarito il quadro della normativa internazionale in materia di soccorsi in mare e non-respingimento, il Tribunale passa poi ad analizzare le ragioni per cui ritiene di non accogliere in quanto irrilevante la richiesta di domanda pregiudiziale alla Corte di giustizia UE avanzata dal pubblico ministero, e volta a chiarire “se la disciplina della Convenzione di Amburgo (recepita con la legge 3 aprile 1989, n. 147), nella parte in cui consente che le autorità libiche responsabili della zona SAR possano impartire direttive che comportino il rimpatrio in Libia di migranti provenienti da tale Paese, si ponga in contrasto con il principio di protezione dal respingimento di cui all’art. 21 della direttiva 2011/95/UE, nonché con la disciplina della direttiva 2013/32/UE recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale”; questione che secondo la pubblica accusa sarebbe “decisiva ai fini della valutazione dell’applicabilità nel caso di specie della norma di cui all’art. 393 bis c.p., che prevede, quale causa di non punibilità con riferimento ai reati per cui si procede, il fatto che il pubblico ufficiale (nel caso di specie il comandante della nave Vos Thalassa e i responsabili di IMRCC che impartirono l’ordine allo stesso comandante di adeguarsi alle direttive delle autorità SAR libiche in merito all’individuazione della Libia quale porto sicuro) abbia dato causa al fatto preveduto dagli artt. 336 e 337, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle proprie attribuzioni, avendo applicato la normativa della Convenzione di Amburgo in contrasto con le citate direttive europee”. Il Tribunale mostra anzitutto di non condividere la scelta di ritenere applicabile nel caso concreto l’art. 393 bis c.p., invece dell’art. 52 c.p., in quanto “l’azione del comandante della nave non poteva in alcun modo ritenersi arbitraria, in quanto improntata all’obbedienza rispetto ad un comando che riteneva legalmente dato”; viene citata una recente sentenza della Cassazione, per cui l’art. 393 bis c.p. “dispone l’esclusione della tutela nei confronti del pubblico ufficiale che se ne dimostri indegno, e trova pertanto applicazione solo in rapporti ad atti che obiettivamente e non soltanto nell’opinione dell’agente concretino una condotta arbitraria”. La questione della compatibilità del respingimento con il diritto internazionale e dell’Unione è peraltro rilevante, sottolinea il Tribunale, anche nella prospettiva delle legittima difesa, posto che “incide sul presupposto della sussistenza del diritto violato, rispetto al quale gli imputati avrebbero opposto una legittima resistenza” (p. 30). La questione pregiudiziale prospettata dalla pubblica accusa, tuttavia, non risulta comunque pertinente, in quanto secondo il Tribunale la Convenzione di Amburgo, a differenza di quanto ritiene il pubblico ministero, non consente affatto il rimpatrio in Libia dei migranti soccorsi, ma tutt’al contrario, imponendo il loro ricovero in un porto sicuro, rappresenta un preciso ostacolo normativo ad ogni forma di respingimento contro la Libia. Secondo il Tribunale, insomma, non è la convenzione di Amburgo ad essere in contrasto con le norme comunitarie che vietano il respingimento verso Paesi non sicuri, quanto piuttosto è la decisione di respingere i migranti verso la Libia ad essere in contrasto tanto con il diritto internazionale (e la Convenzione di Amburgo) quanto con il diritto comunitario. L’attenzione del Tribunale si concentra in particolare sulla compatibilità con il diritto internazionale del mare, ed in particolare con la Convenzione di Amburgo, del memorandum d’intesa tra Italia e Libia del febbraio 2017, con cui l’Italia si impegna a cooperare con le autorità libiche nel contrasto all’immigrazione irregolare, e che sta a fondamento delle modalità operative, seguite anche nel caso di specie, per cui il MRCC di Roma avvisa e coinvolge la Guardia costiera libica quando pervengono richieste di soccorso relative ad imbarcazioni che si situano nelle vicinanze delle acque territoriali libiche, cooperando affinché siano le stesse autorità libiche ad intervenire e a riportare i migranti sulle coste africane. La sentenza conclude che “il memorandum Italia-Libia, essendo stato stipulato nel 2017, quando il principio di non-respingimento aveva già acquisito rango di jus cogens, è: - privo di validità, atteso che ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ‘è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; - incompatibile con l’art. 10 co. 1 Cost., secondo cui ‘l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non-respingimento’” (p. 38). Il Tribunale fa altresì notare come il memorandum, “pur avendo ad oggetto una materia rientrante tra quelle per cui l’art. 80 Cost. prescrive la previa autorizzazione parlamentare alla ratifica, è stato concluso in forma semplificata, ovverossia con il solo consenso espresso dal Presidente del Consiglio italiano e dal capo del governo libico di riconciliazione nazionale senza la previa autorizzazione del Parlamento” (p. 39): argomento che conduce il Tribunale a ritenere il memorandum, anche al di là dei profili di contrasto con il diritto internazionale appena analizzati, “un’intesa giuridicamente non vincolante e non avente natura legislativa”. 4. Chiarito il contesto normativo in cui collocare la vicenda, il Tribunale torna a confrontarsi più da vicino con il problema dei requisiti delle legittima difesa, individuando a tal fine tre questioni decisive: “1. Gli imputati avevano un diritto da far valere? Avevano il diritto a non essere ricondotti in Libia? 2. In caso di sussistenza del diritto, l’offesa arrecata poteva ritenersi ‘ingiusta’? 3. Ed infine, in caso di positiva risposta, la difesa è stata proporzionata all’offesa?” (p. 45). Quanto al primo quesito, il punto di partenza è che “in base alle norme sopra riportate, i migranti, soccorsi in mare, ave(vano) un vero e proprio diritto soggettivo al ricovero in un POS (place of safety), diritto speculare all’obbligo assunto dagli Stati firmatari delle convenzioni”. Per valutare se, all’epoca dei fatti (estate 2018), la Libia potesse considerarsi un “porto sicuro”, il Tribunale aveva richiesto formalmente informazioni all’UNHCR, il cui dettagliato parere viene ampiamente citato dalla sentenza: emergono così le drammatiche condizioni dei centri di detenzione per i migranti presenti in Libia, ove i soggetti ivi trattenuti (ed in particolare le donne) sono soggetti a continue e gravissime violazioni dei più basilari diritti umani, in primis il diritto alla vita ed all’integrità fisica e sessuale. Le conclusioni che la sentenza trae dal rapporto dell’UNHCR sono chiarissime: “Se si riflette un momento sul fatto che i 67 migranti imbarcati dalla Vos Thalassa avevano subito, prima della partenza dal territorio libico, le disumane condizioni sopra rappresentate, appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse per loro una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti dell’Uomo. Da tale excursus emerge inconfutabilmente che tutti i soggetti imbarcati sulla Vos Thalassa – non solo i due soggetti identificati, ma anche tutti gli altri concorrenti nel reato, stavano vedendo violato il loro diritto ad essere ricondotti in un luogo sicuro e, specularmente, che l’ordine impartito dalle autorità Libiche alla Vos Thalassa fosse palesemente contrario alla Convenzione di Amburgo”. L’offesa (il ritorno nei campi libici) cui i migranti si sono opposti era dunque ingiusta, perché contraria ad una pluralità di fonti normative, anche se l’autore di tale offesa (il comandante della Vos Thalassa) non risponde di alcun reato perché erroneamente convinto di adempiere ad un ordine legittimo dell’autorità: “(La natura ingiusta dell’offesa) non significa che la condotta del comandante della imbarcazione fosse delittuosa, atteso che egli stava conformandosi – nella convinzione di eseguire un ordine legalmente dato – ad un ordine proveniente dalla competente zona SAR. E così la sua condotta era non giusta, ma semplicemente scusata”. La sentenza esclude poi che il pericolo che incombeva sui migranti possa ritenersi da loro “volontariamente determinato” (ipotesi che, secondo consolidata giurisprudenza, escluderebbe la possibilità di invocare la legittima difesa), in quanto “il viaggio in mare era parte di un lungo percorso intrapreso per allontanarsi da luoghi per loro pericolosi e non più vivibili”. Poche battute vengono infine dedicate agli ulteriori requisiti della scriminante. Quanto al requisito della proporzione, il Tribunale fa notare come “erano in gioco, da una parte, il diritto alla vita e a non essere sottoposti a trattamenti disumani o a tortura, dall’altra, il diritto alla autodeterminazione dell’equipaggio, sicuramente sacrificabile ex art. 52 c.p. di fronte alla prospettiva delle lesioni che sarebbero conseguite allo sbarco in territorio libico”. In ordine poi all’elemento dell’attualità del pericolo, la sentenza si limita a citare una recente decisione della Cassazione, secondo cui tale requisito “implica un effettivo, preciso contegno del soggetto antagonista, prodromico di una determinata offesa ingiusta, la quale si prospetti come concreta e imminente”. Quanto da ultimo al requisito della necessità dell’azione difensiva, il Tribunale rileva come “(sia) pacifico che – senza la reazione posta in essere dagli imputati e dagli altri (più di dieci non identificati) – tutti i migranti raccolti dalla nave sarebbero stati ricondotti in Libia. Né era ipotizzabile una diversa difesa del proprio diritto ad essere condotti in un POS”. Da www.penalecontemporaneo.it - a cura di Luca Masera |
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Giugno 2024
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