Contributo di Massimo Biffa, in www.ilpenalista.it
Oggi la disciplina della prescrizione del reato ha tre differenti scansioni temporali: quella della legge Cirielli, quella della riforma Orlando e, dal 1 gennaio 2020, quella della l. n. 3 del 2019, tutte legate al diverso momento in cui il reato è stato commesso. A distanza di nemmeno un anno dalle modifiche introdotte dal governo precedente (L. 103/2017) in relazione alla sospensione dei termini, per un periodo complessivamente non superiore a tre anni, nei casi di condanna in primo grado e in appello, si paventa ora una riforma della prescrizione, stavolta di sistema, in grado di uniformare una disciplina che, anche per ragioni di successione di leggi nel tempo operanti con aumenti o persino raddoppiamenti dei relativi termini (si pensi, a mero titolo esemplificativo, alle diverse modifiche dell'art. 157 comma 6 c.p. come all'intervento del DL 138/2011 in materia di delitti tributari), appare oggi del tutto disomogenea. Nella G.U. n. 13 del 16.01.2019 è stata infatti pubblicata la legge 9 gennaio 2019, n. 3, recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”, che contiene anche la riforma della prescrizione del reato. È la c.d. legge spazza-corrotti che, come è noto, nel corso dei lavori parlamentari, per effetto di un emendamento presentato dai relatori di maggioranza (del Movimento Cinque Stelle), è diventata anche, almeno nelle intenzioni, una legge spazza-prescrizione, destinata ad avere effetti significativi, per quanto limitati a una parte soltanto (circa un quarto) del complessivo numero dei procedimenti che, annualmente, vengono definiti con la declaratoria di prescrizione del reato. La riforma della disciplina della prescrizione del reato è contenuta nell'art. 1, lett. d), e), f) della l. n. 3/2019, disposizioni queste che, in base all'art. 1, co. 2 della legge stessa, sono entrate in vigore il 1° gennaio 2020 (la riforma della corruzione, invece, è entrata in vigore il 31 gennaio 2019, dopo il periodo di vacatio legis). Come noto, quindi, la riforma è stata differita di un anno. Fino a quella data ha continuato a trovare applicazione la disciplina prima vigente, come risultante dalla c.d. riforma Orlando, realizzata solo un paio di anni fà con la l. 23 giugno 2017, n. 103 e cancellata quindi da un tratto di penna del nuovo legislatore. Come a tutti noto, la nuova riforma interessa gli artt. 158, 159 e 160 del codice penale: non modifica l'assetto complessivo della disciplina dell'istituto, che rimane quello introdotto nel 2005 con la legge ex Cirielli, ma riguarda solo il profilo – peraltro centrale – del decorso del termine di prescrizione del reato, oggetto di modifiche tanto sul lato del dies a quo quanto, e soprattutto, su quello del dies ad quem. La legge n. 3 del 2019, a decorrere dal 1° gennaio 2020, presenta una soluzione ben più radicale: il blocco del corso della prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado (o il decreto di condanna), indipendentemente dall'esito, di condanna o di assoluzione. È proprio questa, in sintesi e nell'essenza, la novità con la quale i penalisti sono chiamati a confrontarsi: una prescrizione del reato che non potrà più maturare in appello o in cassazione. Con la riforma della prescrizione, quindi, fine processo: mai. Dal 1°gennaio 2020 la prescrizione si ferma dopo la sentenza di primo grado: salta l'estinzione per eccesso di durata in appello e in Cassazione. Per effetto della Legge Spazzacorrotti sono 30mila all'anno i processi penali che, con l'entrata in vigore il 1° gennaio 2020 della riforma della prescrizione, non avranno più scadenza. Si tratta di una disposizione criticata da più parti perché potrebbe portare a processi infiniti. Figlio di un compromesso tra Lega e M5S, il blocco della prescrizione cancella la riforma varata due anni fà dall'allora ministro Pd della Giustizia, Andrea Orlando. Ma ora a valutare se e come modificarlo, accanto al grillino Alfonso Bonafede, confermato Guardasigilli anche nel Governo Conte bis, sarà lo stesso Orlando. I numeri. Secondo i dati forniti dal ministero della Giustizia, nel 2018 i procedimenti penali prescritti in Corte d'appello e Cassazione (per cui opererebbe il blocco) sono stati 29.862. Nel complesso le prescrizioni sono in calo: dal 2016 al 2018 sono scese da 136.888 a 117.367 (-14%). Ma non in Corte d'appello dove, invece, sono aumentate del 12% e mandano in fumo un procedimento su quattro, il 25% dei definiti. A determinare la diminuzione totale è la flessione dei procedimenti azzerati durante le indagini preliminari (passati da 72.840 a 48.735), che rimane comunque la fase in cui si concentra il maggior numero di prescrizioni (circa il 41% ). In totale, il 75% delle prescrizioni matura nel primo grado di giudizio: non verrà quindi toccato dalla riforma. Il blocco della prescrizione dopo il primo grado non avrà conseguenze omogenee sul territorio nazionale perché la percentuale di archiviazioni per prescrizione cambia fortemente da una Corte d'appello all'altra. A Venezia e Torino l'estinzione del processo riguarda infatti più del 40% dei procedimenti definiti. In difficoltà anche Catania, con il 37,8%, Perugia e Roma con il 36 per cento. All'opposto le Corti d'appello di Milano, Lecce, Palermo, Trieste, Caltanissetta e Trento, dove il numero di prescrizioni non arriva al 10 per cento. Gli effetti Lo stop della prescrizione dopo il primo grado potrebbe mettere a rischio l'efficienza degli uffici giudiziari perché li graverà di circa 30mila procedimenti in più ogni anno, con esiti più pesanti sulle Corti dove la percentuale di prescrizioni è maggiore. È concreta la possibilità che si allunghino i tempi dei processi, che in appello in media già durano due anni e tre mesi. «Il blocco della prescrizione - dice Eugenio Albamonte, ex presidente dell'Anm e segretario di Area - permette di salvare il lavoro fatto in primo grado. Ma senza misure per accelerare la giustizia, si rischia di arrivare a processi di appello molto lunghi. La riforma Bonafede non basta. Occorre aumentare le risorse, depenalizzare i reati che possono essere perseguiti altrimenti e rafforzare i riti alternativi». Noi avvocati penalisti, da sempre contrari alla riforma, stiamo portando avanti la nostra battaglia e stiamo cercando do farci sentire con tutte le forze di cui siamo capaci. In tema di effetti sul processo penale si può sicuramente affermare che la nuova prescrizione è la morte annunciata del processo accusatorio. I termini della prescrizione che un tempo riguardavano l'intero procedimento, ora sono riferibili al solo giudizio di primo grado. Un esempio: un processo per il reato di bancarotta aggravata, in primo grado, potrà durare 22 anni e 6 mesi prima che intervenga la prescrizione. La conseguenza sarà che i testimoni potranno essere ascoltati in epoche assai lontane dai fatti: come potrà formarsi la prova nel contraddittorio dibattimentale? Il processo diventerà sempre più un processo scritto, con le letture al dibattimento. Gli atti, e quindi le prove, saranno confezionati dal P.M., nel corso delle indagini preliminari. È prevedibile anche che il blocco della prescrizione dopo il primo grado comporterà una dilatazione dei processi nei successivi gradi di giudizio. I processi potranno durare all'infinito: fine processo, mai! Dopo la sentenza del Tribunale si avrà una forma di oblio: del processo si perderanno le tracce, e con il processo, anche della presunzione di innocenza. La sentenza di primo grado assumerà, di fatto, il carattere della definitività. Per quanto riguarda la razionalità della pena, anzitutto è evidente che non potrà più avere una finalità retributiva. La esecuzione sarà molto lontana dal fatto, l'autore del reato muterà la sua identità morale, il suo stato sociale, la sua personalità. Sarà privo di significato l'art. 133 c.p., e cioè, la commisurazione della sanzione alla individualità del reo, che sarà punito per ciò che era, e non per ciò che è. Ancora più evidente è il venir meno della finalità rieducativa della pena: i percorsi della vita cambiano gli uomini, li rendono migliori o peggiori, ma sicuramente diversi da quel che erano il giorno della commissione del reato. La rieducazione è un trattamento che ha un senso solo se parte dallo stato del reo al momento del fatto o poco oltre. Se la pena è priva di scopi, l'intero sistema penale è privo di razionalità, perde la sua ragion d'essere e, con lui, anche i suoi protagonisti, giudici, pubblici ministeri, avvocati. La riforma dell'istituto della prescrizione con “blocco” della decorrenza dopo la sentenza di primo grado presenta molteplici profili di illegittimità costituzionale, rivelandosi irragionevole sia rispetto ai valori che rispetto agli scopi. Non produrrà, verosimilmente, tempi processuali più ragionevoli, ma getterà i soggetti sottoposti a procedimento penale in una assurda condizione esistenziale di “eterni giudicabili”.
Excursus storico dell'istituto della prescrizione
Ferme restando tutte le riserve culturali e scientifiche sulla disciplina della prescrizione, di cui alla l. n. 103 del 2017 (riforma Orlando) ed alla l. n. 3 del 2019 (riforma Bonafede) che, a prescindere da ogni altra considerazione, pensano di affrontare il problema della durata del processo senza capire le ragioni che portano all'estinzione del reato, è utile proporre un excursus storico dell'istituto della prescrizione, nell'intento di dimostrare l'irrinunciabilità dello stesso ed il modo in cui, da sempre, ha svolto un compito “di giustizia”, assolutamente meritorio e condivisibile. La prescrizione del reato ha trovato, fatta eccezione solo per qualche epoca storica o legislazione, un riconoscimento ufficiale in quasi tutte le esperienze giuridiche. Un consolidato principio infatti vuole che il reato sia punito entro un predeterminato periodo di tempo, trascorso il quale lo Stato “rinuncia” a perseguire il reo. La prescrizione del reato, tuttavia, è un istituto che ha fatto sorgere dubbi, perplessità ed incertezze sia sulla sua natura, sia sulla sua ratio e/o funzione, sia sulla sua disciplina. Natura sostanziale della prescrizione del reato e della pena Tra le cause estintive maggiormente collaudate (e di conseguenza, sia pure non del tutto a ragione, meno discusse) va sicuramente annoverata la prescrizione del reato e della pena. Per la verità, solo la prescrizione del reato ha alle spalle una tradizione storicamente consolidata; il fenomeno prescrittivo della sanzione penale è, invece, di data più recente, tanto da essere ignoto perfino nell'àmbito di alcune codificazioni pre-unitarie (alcune di esse ammettevano la prescrizione delle sole pene di minor gravità: così il codice di procedura penale per il Regno delle Due Sicilie del 1819 escludeva la prescrizione delle pene di morte, dell'ergastolo e del quarto e terzo grado dei ferri (art. 613), prevedendo la prescrizione delle pene criminali minori, delle pene correzionali e delle pene di polizia (art. 614-616). Un esempio di preclusione assoluta si ha nel codice penale toscano del 1853, il cui art. 95 stabilisce lapidariamente che «contro le condanne non si dà prescrizione»). Lo stesso profilo dommatico della prescrizione del reato ha subito una certa evoluzione. Nel codice penale Zanardelli la prescrizione verificatasi prima della condanna definitiva ha un effetto estintivo dell'azione penale, come testualmente sancito dall'art. 91 c.p. 1889. Fortemente condizionata dal dato legislativo, la dottrina dell'epoca - pur con qualche autorevole voce contraria - non dubitava della collocazione processualistica dell'istituto della prescrizione. Dopo l'entrata in vigore del Codice Rocco, che ha inscritto la prescrizione tra le cause di estinzione del reato, però, la dottrina ha presto trovato un accordo. Secondo un ormai consolidato orientamento di pensiero, infatti, nessun dubbio può più sussistere sulla natura sostanziale dell'istituto della prescrizione. Del resto, le argomentazioni offerte a sostegno dell'interpretazione in chiave sostanziale del fenomeno estintivo (del reato, ovviamente) sono assai persuasive. Merita tra queste di essere sottolineata quella che si incentra sull'art. 152 c.p.p., dal quale si desume la differente situazione riconosciuta alle cause estintive rispetto alle condizioni di procedibilità. Mentre queste ultime, proprio per la loro efficacia processuale, precludono qualsiasi pronuncia nel merito, le prime non escludono che possa aversi una sentenza assolutoria allorché vi siano prove che rendano evidente l'insussistenza del fatto, la sua non previsione come reato o ancora la non commissione del medesimo da parte dell'imputato. Dalla natura sostanziale della prescrizione discende, come corollario, il riconoscimento della garanzia dell'irretroattività e dell'inquadramento nelle funzioni della pena. Il fondamento razionale della prescrizione. La funzione di garanzia Dopo aver accennato brevemente alla natura giuridica della prescrizione, è indispensabile spendere qualche parola per riflettere sulla ratio della causa estintiva in esame. La mancanza di valutazioni critiche e il diffusissimo riconoscimento della rilevanza del decorso del tempo in tutti gli ordinamenti penali potrebbero far ritenere ultronea una simile indagine. In realtà, nonostante una diffusa acriticità in materia, il fondamento della prescrizione è meno limpido di quanto può sembrare a prima vista. In primo luogo, è opportuno ribadire che la tesi della prescrizione del reato quale rimedio all''usura' del materiale probatorio, e quindi come garanzia di certezza processuale, non merita accoglimento. Giustamente è stato osservato che l'utilizzazione di prove formatesi in periodi anche lontani non è preclusa, come dimostra l'obbligo di proscioglimento con formula di merito, nonostante il verificarsi della prescrizione, nei casi previsti dall'art. 152 c.p.p.. Non solo: laddove l'esigenza di certezza in chiave garantistica dovrebbe essere più forte, come nel caso di reati punibili con l'ergastolo, si ha una situazione di imprescrittibilità. Sottolineata l'insufficienza del riferimento ad esigenze di certezza processuale, va peraltro detto che l'istituto della prescrizione incontra non poche difficoltà a conciliarsi con le stesse finalità delle sanzioni penali. Certamente nelle sue linee generali la prescrizione è armonizzabile con la funzione repressiva del diritto penale, o più precisamente con la finalità retributiva della pena (nonché con un'eventuale funzione generalpreventiva). Si osserva che l'esigenza di reagire all'illecito, col decorso del tempo, a poco a poco si affievolisce e si spegne: considerazioni che riflettono il dato sociologico secondo cui spesso (non sempre) il tempo smorza le velleità di «vendetta» nell'individuo e nel gruppo sociale, nonché il cosiddetto allarme sociale provocato dal reato. Tuttavia convinzioni di questo tipo andrebbero meglio verificate. Se infatti per reati di lieve o media gravità esse probabilmente rispondono a realtà, per reati di elevato standard di gravità ciò può benissimo non avvenire: del resto, l'imprescrittibilità dei reati punibili con l'ergastolo ne è un'indiscutibile controprova. Si dovrebbe anche riflettere sul fatto che non poche volte la scoperta, sia pure a notevole distanza di tempo, degli autori di un reato riaccende istanze retributive che si vorrebbero svanite con lo scorrere degli anni. È indubbio, comunque, che la prescrizione si colloca con minor fatica sul versante retributivo della sanzione penale. Naturalmente ci riferiamo al significato classico di retribuzione, e non già ad una retribuzione in termini di pretesa espiazione attraverso una (del tutto teorica) sofferenza subita dal colpevole per il rimorso derivante dal fatto commesso e l'angoscia prodotta dal rischio di essere scoperto (o dalla pendenza prolungata del procedimento o dell'eseguibilità dell'ordine di carcerazione a suo carico): tesi mai seriamente prospettata e, comunque, energicamente respinta dalla dottrina. Molto più problematica appare la conciliabilità della prescrizione con la funzione rieducativa della pena, per tacere della finalità rieducativo-curativa della misura di sicurezza (pure essa travolta completamente dalla prescrizione del reato e largamente dalla prescrizione della pena). È indubbiamente esatto che, trascorso un dato lasso di tempo (a maggior ragione se particolarmente lungo) dal momento del commesso reato, la personalità del reo può essere cambiata; quindi verrebbe meno la ragionevolezza di una misura (anche) rieducativa in circostanze oggettive e soggettive diverse da quelle nelle quali quest'ultima sarebbe stata adeguata. In realtà la prescrizione penale ha avuto e continua ad avere nella legislazione codicistica soprattutto una funzione di “garanzia” processuale e/o sostanziale. L'attribuire efficacia estintiva al decorso del tempo, infatti, serve, o meglio dovrebbe servire, da un lato, a “sollecitare “ la giustizia e, dall'altro, a garantire il cittadino. Francesco Carrara scriveva: “La proposizione che debba esservi un termine (più o meno lungo secondo la gravità del delitto) al di là del quale divenga eternamente improponibile una accusa criminale, è ormai insegnata in tutte le Scuole e da tutti i moderni codici sanzionata”. Il problema è che la prescrizione ha finito per essere, nella prassi, a causa dell'ormai proverbiale lentezza dell'amministrazione della giustizia, un escamotage per evitare la condanna. Dai Codici preunitari al Codice Zanardelli: la prescrizione come causa di estinzione dell'azione penale Nell'excursus storico che mi sono proposto di svolgere, finalizzato a dimostrare l'immanenza della prescrizione anche nei sistemi penali del passato, è utile svolgere una rapida panoramica delle disposizioni adottate in tema di prescrizione nelle prime esperienze codicistiche, tra fine XVIII secolo e metà XIX secolo. A tale riguardo viene anzitutto in rilievo la codificazione penale asburgica, in relazione all'applicazione che essa ricevette nelle province italiane soggette all'Austria. Il primo intervento normativo di natura codificatoria è dato dal codice di Maria Teresa del 1768; esso prevedeva il tradizionale termine prescrizionale di venti anni, ma ne condizionava l'applicazione al fatto che l'imputato non fosse fuggito all'estero. Il codice di Giuseppe II del 1787, invece, escludeva espressamente l'istituto della prescrizione penale, statuendo che il delinquente dovesse “trattarsi a norma delle leggi, qualunque tempo (potesse) essere decorso fra il commesso delitto e lo scoprimento del medesimo”. Il successivo codice austriaco del 1803 conferì nuovamente rilevanza alla prescrizione penale, riesumando il nucleo essenziale della regolamentazione teresiana, con l'aggiunta di una triplice condizione: che l'imputato non avesse conservato alcun profitto del reato, che si fosse anzi adoperato per il riparare il danno ove possibile e che non avesse recidivato (§ 229) Tra le prime codificazioni che vengono in rilievo, occorre ancora segnalare il codice di Pietro Leopoldo di Toscana del 1786 (cd. Riforma criminale toscana o Leopoldina), “che ammetteva la prescrizione dell'azione penale con termini varianti da 10, a 5 e a 1 anno”, e le leggi napoletane del 1808, le quali originariamente ponevano diverse restrizioni alla operatività della prescrizione: imprescrittibilità per i misfatti capitali; preclusione alla prescrizione in caso di contumacia del reo e in caso di fuga dello stesso qualora, in quest'ultima ipotesi, vi fosse già l'accusa o anche semplicemente la denuncia del reato (art. 43). Meritano poi di essere menzionati, per le specifiche disposizioni ivi contenute in tema di prescrizione, il Codice penale per lo Regno delle due Sicilie del 1819, il Regolamento penale gregoriano del 1832, il Codice penale criminale estense del 1855, il Codice penale toscano del 1853, il Codice penale sardo-piemontese del 1859. Il Codice penale per lo Regno delle due Sicilie del 1819 declinava un'articolata regolamentazione della prescrizione dell'azione penale, significativamente allocata nella parte quarta del codice, dedicata alla materia processuale (Leggi della procedura nei giudizi penali). Gli artt. 613 ss. prevedevano che l'azione penale si prescrivesse: nel termine di venti anni, per i misfatti puniti con la morte, l'ergastolo o il terzo e quarto grado dei ferri; nel termine di dieci anni per i misfatti puniti con “pene criminali minori”; nel termine di due anni, per i delitti (ossia quelli sanzionati con “pene correzionali”); nel termine di tre mesi, per le contravvenzioni (sanzionate con “pene di polizia”). L'art. 618 stabiliva poi una peculiare ipotesi di interruzione della prescrizione in caso di recidiva. Il regolamento penale gregoriano del 1832 prevedeva quattro periodi di prescrizione, come di consueto calibrati sulla specie e sulla durata della pena previste per il delitto de quo agitur. Così l'azione penale per i delitti puniti con la morte o con la galera si prescriveva in trent'anni (art. 39); per i delitti puniti con la galera da cinque a vent'anni si prescriveva in dieci anni (art. 40); per i delitti punti con prestazione obbligatoria d'opera in lavori pubblici (art. 41), nonché per i delitti di stupro e di adulterio (art. 42) si prescriveva in cinque anni; infine, per tutti gli altri delitti puniti con differenti specie di pena l'azione penale restava estinta con il decorso di tre anni (art. 43). I delitti contro la religione e quelli contro lo Stato erano imprescrittibili (art. 47). Degne di nota la disposizione relativa alla interruzione della prescrizione, determinata da qualunque atto del processo giudiziale (art. 45) e quella secondo la quale la sentenza, anche contumaciale, impediva la prescrizione (art. 46). Infine, va detto che nel Regolamento gregoriano non era prevista la prescrizione della condanna. Anche il Codice penale toscano del 1853 scandiva i termini di prescrizione in quattro classi, secondo un duplice criterio che rendeva particolarmente agile la relativa regolamentazione: la specie di pena prevista per il delitto de quo e il tipo di procedibilità, d'ufficio o a querela di parte. Ed infatti l'art. 89 recitava: “L'azione penale si prescrive mediante il decorrimento: a) di venti anni nei delitti minacciati di morte; b) di quindici anni nei delitti minacciati di ergastolo; c) di dieci anni negli altri delitti che si perseguono di ufficio; e d) di tre anni nei delitti che si perseguono a querela di parte”. Il Codice penale estense del 1855 disciplinava in modo unitario la prescrizione della pena e la prescrizione dell'azione penale, parametrate sulla gravità del reato rivelata esclusivamente dalla specie di pena corrispondente al reato de quo. Così la pena e l'azione penale nascenti da delitti punibili con la morte o con l'ergastolo a vita si prescrivevano con il decorso di trent'anni (art. 88); per i delitti punibili con l'ergastolo a tempo il termine era di vent'anni (art. 89); per i delitti punibili con il lavori forzati il termine era di quindici anni (art. 90); per i delitti punibili con il carcere il termine era di dieci anni (art. 91); l'azione penale si estingueva in due anni per i delitti punibili con la multa (art. 82) e in un anno per i delitti di azione privata (art. 93). Infine, vi erano numerosi delitti dichiarati imprescrittibili: delitti di lesa Maestà, parricidio, infanticidio, fratricidio, uxoricidio, veneficio e stupro violento accompagnato da omicidio, manomissione di ostie consacrate, bestemmia ereticale proferita con cognizione di causa e deliberazione d'animo. Nel Codice penale sardo del 1859 la disciplina della prescrizione, sempre riferita all'azione penale, era disseminata in molteplici disposizioni (artt. 137, 140, 142-145). Il termine più esteso era quello tradizionale dei vent'anni, sancito in relazione ai crimini puniti con le pene della morte e dei lavori forzati a vita; per i crimini punibili con pene criminali minori, il termine era fissato in dieci anni. L'azione penale per i reati punibili con pena correzionale e quella per i reati punibili con pena di polizia si prescriveva, rispettivamente, in cinque anni e in un anno. Merita poi di essere segnalata una regola speciale dettata per le ipotesi di “sospensione” del procedimento penale in attesa della “risoluzione della controversia civile pel medesimo oggetto”: in questo caso il Codice prevedeva che non decorresse “alcuna prescrizione per lo stesso reato se non dopo il giudizio definitivo della causa civile”. E giungiamo finalmente alla disciplina dettata in materia di prescrizione dal primo codice penale elaborato e promulgato in epoca post-unitaria. Anche il codice Zanardelli disciplinava la prescrizione in termini di estinzione dell'azione penale; recitava, infatti, l'art. 91 con locuzione assolutamente esplicita: “La prescrizione, …, estingue l'azione penale”. Esso si poneva dunque nel solco di una consolidata impostazione, tramandatasi in modo costante tra il XVIII e XIX secolo, secondo la quale il meccanismo prescrizionale rifletteva la sua efficacia estintiva sull'azione e non sul reato. In ordine a tale aspetto occorre però operare una precisazione, che non è di poco momento: all'ordito codicistico del 1889 – così come a quello dei suoi predecessori pre-unitari – era del tutto ignota la figura della estinzione del reato; così, la morte del reo (art. 85 co. 1), l'amnistia (art. 86) e la remissione di querela (art. 88 co. 1) determinavano, al pari della prescrizione, l'estinzione dell'azione penale. Sotto tale profilo la configurazione codicistica della prescrizione in termini di causa di estinzione dell'azione è senz'altro significativa, ma meno determinante in relazione alla disputa sulla natura dell'istituto. In ordine al fondamento dell'istituto, lo Zanardelli riteneva che esso andasse individuato negli effetti naturali del tempo, che impongono un termine alla persecuzione giudiziale per un triplice ordine di ragioni: per un principio di libertà e di tutela dell'innocenza, che non consente di mantenere indefinitamente un cittadino nella condizione di imputato; per le buone norme di giustizia, in relazione al rischio di dispersione delle fonti di prova; per il venire meno dell'interesse sociale alla repressione. Per quanto riguarda la durata dei termini di prescrizione, essi erano graduati per gruppi di reati in relazione alla pena che si sarebbe dovuta infliggere all'imputato (art. 91): venti anni per la pena dell'ergastolo; quindici anni in relazione alla reclusione per un tempo non inferiore ai venti anni; dieci anni in relazione alla reclusione per un tempo superiore ai cinque e inferiore ai venti anni, alla detenzione per un tempo superiore ai cinque anni, nonché alla interdizione perpetua dai pubblici uffici; cinque anni in relazione alla reclusione o alla detenzione per un tempo non superiore ai cinque anni, al confino, alla interdizione temporanea dai pubblici uffici, nonché alla multa; due anni in relazione all'arresto per un tempo superiore ad un mese e all'ammenda per una somma superiore alle lire trecento; sei mesi in relazione all'arresto e all'ammenda in misura inferiore a quella indicata al numero precedente, nonché alla sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte. Alcune norme prevedevano, poi, termini “speciali” di prescrizione; di qui la clausola di salvezza contenuta nell'art. 91 (“salvo i casi nei quali la legge disponga altrimenti”): così l'art. 401 fissava in un anno il termine prescrizionale per il delitto di diffamazione con attribuzione di un fatto determinato (art. 393) e in tre mesi quello per i delitti di diffamazione semplice (art. 395 co. 1), di diffamazione con mezzi di pubblicità (art. 395 co. 3), di diffamazione contro un incaricato di pubblico servizio (art. 396) e di ingiuria (art. 393 co. 2). La giurisprudenza dell'epoca era uniforme nell'escludere che il riferimento operato dal codice fosse alla pena edittale comminata in astratto; occorreva invece avere riguardo alla pena inflitta in concreto o a quella che si sarebbe dovuto infliggere, a seconda che la prescrizione si facesse valere dopo la pronunzia della sentenza o durante il periodo istruttorio. In ordine al dies a quo vigevano regole omologhe a quelle poi previste dal Codice Rocco; così per i reati consumati la prescrizione decorreva dal giorno della consumazione, per i reati tentati o mancati dal giorno di commissione dell'ultimo “atto di esecuzione”, per i reati continuati o permanenti dal giorno di cessazione della continuazione o della permanenza (art. 92 co. 1). Anche il Codice Zanardelli disciplinava le fattispecie della sospensione (autorizzazione a procedere, deferimento di una questione ad altro giudizio, ex art. 92 co. 2) e della interruzione con modalità di funzionamento sostanzialmente simili a quelle attualmente vigenti. Per quanto concerne il regime di rilevabilità, il Codice prevedeva che la prescrizione dell'azione penale fosse “applicata d'ufficio” e precludeva all'imputato la facoltà di rinunziarvi (art. 99). Ma la impostazione del Codice Zanardelli verrà profondamente immutata dal 1931. Nel Codice Rocco, infatti, la prescrizione verrà configurata in termini di causa di estinzione del reato. In conclusione Le considerazioni svolte sulla Riforma della Prescrizione del Reato entrata in vigore all'inizio del mese di gennaio ultimo scorso permettono di affermare che detta riforma è, da un lato, contraria ai principi del processo penale vigente e, dall'altro, è contraria alla tradizione della dottrina e giurisprudenza penalistica a far data dalla metà del ‘700 sino ai nostri giorni. Infine, non può essere taciuto che, grazie alla mobilitazione dell'avvocatura ed alla indubbia rilevanza delle forti critiche da più voci mosse alla nuova disciplina della prescrizione, le parti politiche non hanno potuto fare a meno di recepire il chiaro messaggio di protesta. La proposta di legge Costa che, nelle intenzioni, ha l'obiettivo di abrogare la Riforma Bonafede, è stata bocciata in commissione giustizia con un solo voto di scarto (23 a 22), ma il testo della stessa andrà comunque in Aula a Montecitorio il prossimo 27 gennaio, offrendo così un'ultima chance per l'abrogazione della nuova legge. Inoltre, deve essere rilevato che lo stesso ministro Bonafede, dopo aver riferito di un vertice sulla giustizia, nel corso del quale “sono state raccolte le diverse sensibilità”, ha dichiarato di lavorare, insieme al premier Conte, ad una nuova proposta di mediazione che, sostanzialmente, prevederebbe di distinguere tra condannati ed assolti in primo grado, con interruzione della prescrizione in caso di condanna. Ove invece, in primo grado, l'imputato venga assolto, scatterebbe una lunga sospensione della prescrizione, che potrebbe arrivare fino a due anni. Questo infatti è il contenuto del c.d. “Lodo Conte”, attualmente sul tavolo delle discussioni in tema di prescrizione. E, volendo esprimere un commento in merito al “Lodo Conte”, sembra davvero condivisibile quanto espresso da Andrea Mascherin, Presidente del Consiglio nazionale forense, intervenendo in una trasmissione televisiva: “è una soluzione sbagliata perché il processo deve avere la ragionevole durata per tutti: per l'imputato, per chi è assolto, per le parti offese. È uno dei tanti compromessi al ribasso della politica sulla giustizia. Il problema è che la giustizia è diventato uno strumento di propaganda politica. Non c'è nessuna riflessione sull'interesse del sistema giustizia per il cittadino. Le riforme ormai si fanno sui sondaggi. Se all'indomani di un orribile ed efferato omicidio che scuote l'opinione pubblica la maggior parte degli italiani chiedesse di reintrodurre la pena di morte, la politica introdurrebbe la pena di morte. È un dramma per il Paese, stiamo mettendo in moto un pendolo che si sta allontanando drammaticamente dalla Costituzione”. |
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