Giancarlo Corsetti
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Contagio da Covid-19 in ambito lavorativo: responsabilità penale del datore di lavoro e dell'impresa

21/4/2020

 
Contributo di Gabriele Minniti, in ilPenalista

Premessa. I profili di responsabilità penale per la diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro
Come noto, in seguito alla diffusione dell'agente patogeno denominato Corona Virus (da cui l'acronimo COVID-19), sono stati adottati una serie di provvedimenti volti a contrastare la diffusione del predetto Virus anche negli ambienti di lavoro.
In particolare, già a far data dal 3 febbraio 2020, il Ministero della Salute, con circolare n. 3190, forniva, a tutti gli operatori che per ragioni lavorative sono quotidianamente a contatto con il pubblico, le seguenti indicazioni: "Si ritiene sufficiente adottare le comuni misure preventive della diffusione delle malattie trasmesse per via respiratoria, e in particolare:
• lavarsi frequentemente le mani;
• porre attenzione all'igiene delle superfici;
• evitare i contatti stretti e protratti con persone con sintomi simil influenzali;
• adottare ogni ulteriore misura di prevenzione dettata dal datore di lavoro.”
Non mancava, infine, il Ministero di invitare tutti i datori di lavoro coinvolti in servizi/esercizi a contatto con il pubblico a diffondere tali misure ai propri lavoratori dipendenti.
Successivamente sono stati emanati diversi decreti del Presidente del Consiglio, tra cui quello del 22 marzo 2020, che comprende il pacchetto di misure di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica, finalizzato a contrastare e contenere il diffondersi del COVID-19 attraverso, la sospensione di tutte le attività commerciali e industriali ­- il regime introdotto è stato prorogato, da ultimo, sino al 3 maggio 2020 -, dal D.P.C.M. del 10 aprile 2020 -, fatta eccezione per quelle individuate nell'allegato 1 del D.P.C.M.: restano, pertanto, in essere, a titolo esemplificativo, le attività di vendita di generi alimentari e di prima necessità, le edicole, le farmacie, le parafarmacie, la ristorazione con consegna a domicilio, i servizi bancari, finanziari, assicurativi, l'attività del settore agricolo, comprese le filiere che ne forniscono beni e servizi.
Per tutte le attività lavorative elencate in tale allegato sono state imposte una serie di precauzioni finalizzate a tutelare quella categoria di lavoratori costretta a proseguire la propria attività.
In questo senso, è stato adottato, altresì, il Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure anti-contagio negli ambienti di lavoro, firmato, il 14 marzo 2020, dal Governo e dal Presidente di Confindustria, volto a “coniugare la prosecuzione delle attività produttive con la garanzia di condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative” secondo la “logica della precauzione”, che ha fornito importanti indicazioni comportamentali per le Società, non solo in ambito igienico sanitario, ma anche in quello organizzativo in senso lato.
In primo luogo, si prevede, ove possibile, la riduzione o la sospensione dell'attività lavorativa, anche mediante il ricorso ad ammortizzatori sociali o a congedi retribuiti e, in alternativa, lo svolgimento del lavoro agile (c.d. smart working); in secondo luogo, solo laddove ciò non fosse attuabile, è prevista la prosecuzione delle attività lavorative, alla condizione, però, che vengano assicurati adeguati livelli di protezione per i lavoratori.
All'interno di tale documento sono state previste, tra le diverse misure, la sanificazione nei luoghi di lavoro, l'adozione di protocolli di sicurezza anti-contagio, l'utilizzo di specifici DPI, il rispetto della distanza interpersonale di almeno un metro, nonché la limitazione degli spostamenti all'interno dei siti e degli accessi agli spazi comuni.
Il quadro sin qui delineato rende opportuna e doverosa una riflessione sulle questioni giuridiche di rilevanza penale e amministrativa, ex d.lgs. 231 del 2001, che potrebbero sorgere dallo svolgimento di attività in presenza di condizioni che non rispettino gli adeguati livelli precauzionali stabiliti dalle diverse fonti normative.
Il presente contributo si propone, quindi, di analizzare la rilevanza penale delle condotte ascrivibili ai datori di lavoro, per il mancato rispetto degli standard di sicurezza nei luoghi di lavoro, nonché le correlate ricadute sull'ente, ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001.
A tal proposito è opportuno sottolineare che non vi è dubbio alcuno che il contagio da Covid nei luoghi di lavoro vada considerato alla stregua di un vero e proprio infortunio sul lavoro.
Una conferma di quanto appena affermato si ricava dall'art. 42, comma 2, del decreto legge n. 18, del 17 marzo 2020 (cosiddetto Decreto Cura Italia), secondo cui il contagio da Coronavirus deve essere trattato dal datore di lavoro pubblico e privato e dall'Inail come un infortunio.
Ancora più chiare sul punto sono le indicazioni fornite dall'Inail con la circolare n. 13, del 3 aprile 2020, secondo cui “la norma di cui al citato articolo 42, secondo comma, chiarisce alcuni aspetti concernenti la tutela assicurativa nei casi accertati di infezione da nuovo coronavirus (SARS-CoV-2), avvenuti in occasione di lavoro. In via preliminare si precisa che, secondo l'indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, l'Inail tutela tali affezioni morbose, inquadrandole, per l'aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro: in questi casi, infatti, la causa virulenta è equiparata a quella violenta. In tale ambito delle affezioni morbose, inquadrate come infortuni sul lavoro, sono ricondotti anche i casi di infezione da nuovo coronavirus occorsi a qualsiasi soggetto assicurato dall'Istituto…”.
Per la giurisprudenza penale, poi, “in tema di lesioni personali, costituisce "malattia" qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell'organismo, ancorché localizzata, di lieve entità e non influente sulle condizioni organiche generali, onde lo stato di malattia perdura fino a quando sia in atto il suddetto processo di alterazione. Del tutto correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto che costituisce malattia l'instaurazione nell'organismo di un meccanismo degenerativo, che, se non fronteggiato tempestivamente e costantemente con l'assunzione di terapia farmacologia, conduce ad ulteriori alterazioni e alla fase conclamata di AIDS.” (ex plurimis, Cass. pen., Sez. V, n. 43763 del 29/09/2010, Adamo, Rv. 248778).
Da ciò discende, inevitabilmente, come verrà più diffusamente analizzato nel prosieguo, che nei casi di contrazione del Covid, da parte dei dipendenti o di terzi, all'interno dei luoghi di lavoro, potrebbe insorgere una responsabilità sia del datore di lavoro per i reati di lesioni colpose e omicidio colposo, commessi in violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, sia della società per violazione del d.lgs. n. 231 del 2001.
I predetti reati potranno, tuttavia, essere concretamente contestati in presenza di tre condizioni:
  1. che il contagio sia avvenuto all'interno dell'ambiente di lavoro;
  2. che vi sia stata una violazione della normativa emergenziale e/o del d.lgs. n.81 del 2008;
  3. che sussista un nesso di causalità tra l'evento dannoso (lesioni o morte) e la violazione della normativa predetta.
Difficilmente, invece, potrà configurarsi a carico del datore di lavoro una responsabilità per epidemia colposa, ai sensi dell'art. 452 c.p., in relazione al 438 c.p., che punisce “chiunque per colpa (a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline) cagiona una epidemia mediante la diffusione di germi patogeni”.
La giurisprudenza della Cassazione, infatti, ha escluso l'applicazione di tale norma, nel caso di mancato impedimento dell'evento, poiché il reato di epidemia colposa non è configurabile a titolo di responsabilità omissiva: “In tema di delitto di epidemia colposa, non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione in quanto l'art. 438 c.p., con la locuzione «mediante la diffusione di germi patogeni», richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell'art. 40, comma 2, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera”. (ex plurimis, Cass.pen.,Sez. IV, 12/12/2017, n.9133).
Qualora, pertanto, dovesse essere confermato questo orientamento giurisprudenziale, non potrà essere contestata tale fattispecie al datore di lavoro, che ha omesso colposamente l'adozione di misure idonee a impedire la diffusione del virus.


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