Nota di Michele Spina in sistemapenale.it a Cass., Sez. V, sent. 3 maggio 2021 (dep. 19 luglio 2021), n. 27905, Pres. Bruno, est. Miccoli, ric. Ciontoli e altri
1. Con la sentenza in commento la Quinta Sezione della Corte di Cassazione ha definito con effetto di giudicato la vicenda relativa all’omicidio di Marco Vannini. Essa è già ampiamente nota alla letteratura specialistica, e non necessita quindi di ulteriore rammento. Occorre invece ripercorrere le tappe processuali del caso per capire come si è arrivati al presente epilogo decisorio, con l’adesione completa alle richieste dell’accusa dopo qualche inatteso ostacolo iniziale. Come si ricorderà, per l’omicidio del giovane Vannini era stato contestato ad A. C. e ai suoi familiari il reato di omicidio volontario mediante omissione, con la sola eccezione di V.G., rinviata a giudizio per omissione di soccorso e subito assolta in primo grado. La volontarietà dell’omicidio era stata però esclusa dalla Corte di Assise di Roma con riferimento ai familiari di A.C., separando la loro posizione da quella dell’autore materiale dello sparo[1]. L’imputazione aveva poi trovato una ulteriore smentita nella sentenza di appello, che aveva derubricato in colposo anche il reato addebitabile ad A.C., con i relativi riflessi in punto di trattamento sanzionatorio[2]. Tale più benevola pronuncia era stata però cassata dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione, che l’aveva censurata, in particolare, per i vizi motivazionali attinenti all’accertamento dell’elemento soggettivo[3]. La Corte del rinvio era così tornata ad aderire all’impostazione accusatoria, condannando tutti gli imputati per omicidio volontario[4]. Per i familiari di A.C., tuttavia, a tale conclusione era giunta per mezzo dell’art. 116 c.p., sviluppando sul punto un controverso suggerimento contenuto nella sentenza rescindente[5]. La sentenza in commento, rigettando i ricorsi degli imputati contro la condanna pronunciata nel secondo giudizio di appello, ha definitivamente fatto chiarezza su alcuni aspetti rimasti oscuri nelle precedenti fasi processuali. In particolare, tre sono le questioni specialmente approfondite: 1) la configurabilità di una posizione di garanzia a carico di A.C. e dei suoi familiari; 2) il dubbio, una volta risolta in senso positivo la prima questione, sulla ricorrenza del dolo eventuale; 3) l’effettiva pertinenza del richiamo all’istituto del concorso anomalo ex art. 116 c.p. Aspetti rimasti oscuri, dicevamo, anche perché su di essi avevano unanimemente insistito, in senso critico, i primi commentatori, costringendo la Suprema Corte a replicare indirettamente pure a quelle prime perplessità[6]. 2. Procediamo nell’ordine poc’anzi enunciato, tralasciando di analizzare le questioni collaterali meno importanti. In primo luogo, la Quinta Sezione della Cassazione reputa applicabile l’art. 40 cpv e, dunque, configurabile una posizione di garanzia in capo a tutti gli appartenenti alla famiglia C., pur notando che si tratta di questione già definita e vincolante per il giudice del rinvio ex art. 627 c.p.p.[7] 2.1. Anzitutto, rigettando un’eccezione d’incostituzionalità sollevata dalla difesa, la Corte ritiene che l’art. 40 cpv non ponga problemi di indeterminatezza descrittiva. Il fondamento della responsabilità omissiva si basa infatti sulla necessità di «assicurare ad alcuni beni una tutela rafforzata», posto che i loro titolari non sono capaci di proteggerli in maniera adeguata. Del resto, la legalità penale tollera concetti elastici o clausole generali quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta, da una parte, al giudice di stabilirne il contenuto e, dall’altra, al destinatario della norma di avere una percezione sufficiente e chiara del relativo valore precettivo[8]. 2.2. Chiarita la legittimità costituzionale dell’art. 40, secondo comma, c.p., la Corte prosegue ricordando che, in relazione al caso di specie, la fonte della posizione di garanzia fu individuata dalla sentenza rescindente nell’assunzione volontaria di un dovere di protezione. Una figura che si inserisce nel «consolidato orientamento giurisprudenziale volto a riconoscerne la validità anche quando nessuna norma o contratto preveda tale situazione». Tale interpretazione a-formalistica della posizione di garanzia affonda le sue radici nella Costituzione e, in particolare, nei doveri inderogabili ex art. 2 Cost. In altri termini, il rilievo costituzionale dei beni giuridici coinvolti, secondo la Corte, supporta la possibilità di assumere unilateralmente doveri di garanzia, attraverso una mera “presa in carico” volta ad impedire che un soggetto incapace possa rimanere vittima di una situazione di pericolo[9]. 2.3. Ancora, la sentenza ricorda il dibattito dottrinale tra la c.d. teoria formale e la c.d. teoria contenutistico-funzionale, aderendo espressamente alla seconda opzione. La posizione di garanzia non va individuata in una fonte formale dell’ordinamento giuridico, ma costruita in base allo «scopo di protezione della norma incriminatrice», verificando i seguenti presupposti: a) la particolare vulnerabilità del bene protetto, ossia la presenza di un bene giuridico meritevole di una tutela rafforzata per l’incapacità del suo titolare di proteggerlo adeguatamente; b) l’affidamento del suddetto bene a un terzo-garante anteriormente alla verificazione della situazione di pericolo; c) il potere di intervenire sul decorso causale lesivo, così consentendo di restringere la platea dei garanti a chi abbia determinato un aumento del rischio per il bene tutelato[10]. Rievocando la motivazione della sentenza rescindente e notando come essa acceda alla teoria contenutistico-funzionale, la Corte ravvisa – pur con qualche reticenza, come vedremo – tutti i suddetti requisiti nel caso di specie[11]. 2.4. La motivazione della sentenza prende però a questo punto una decisa sterzata. Se finora l’attenzione della Corte si era concentrata sulla matrice funzionalistica dell’assunzione volontaria, si valorizza ora un ulteriore dato[12]: la condizione di ospite del Vannini all’interno dell’abitazione degli imputati. Dall’ospitalità si fa derivare «l’assunzione di una posizione speciale di garanzia», non surrogabile mediante l’intervento di terzi estranei. Infatti, nessuno avrebbe potuto accedere all’abitazione senza il consenso degli imputati, pacificamente titolari dello ius excludendi alios. Vannini, in definitiva, era titolare del diritto ad essere soccorso dai propri “ospitanti”, distinguendosi così anche la posizione di questi ultimi da quella di V.G, anche lei ospite della famiglia C. e per questo attinta dalla diversa imputazione di cui all’art. 593 c.p.[13] 2.5. Si offre allora alla Corte l’occasione di meglio precisare i confini tra l’omissione propria (art. 593 c.p.) e quella impropria generata dal rapporto di ospitalità (art. 40, comma 2, c.p.)[14]. Con la prima si punisce chiunque si trova occasionalmente a contatto diretto con una persona in stato di pericolo; occasionalità da correlare al fatto che chiunque può essere soggetto attivo del reato, indipendentemente da rapporti specifici intercorrenti con la persona da soccorrere. Nella seconda, invece, il soggetto tenuto ad attivarsi a tutela dell’incolumità altrui non coincide con il quisque de populo, ma è il solo in grado di provvedere all’attivazione dei soccorsi, essendo «preventivamente individuabile come titolare di fatto del relativo potere, in virtù della circostanza che questi si trova in un ambiente privato»[15]. La Corte nega altresì che l’ospitalità dia luogo a rapporti non vincolati che trovano fonte nella “mera cortesia”. L’ospitalità rileva infatti come «fonte di affidamenti protettivi individualizzati, perché lo spettro dei destinatari dell’obbligo di soccorso resta oggettivamente delimitato proprio dalla condizione di presenza nella stessa abitazione». La particolare considerazione della relazione di ospitalità è del resto confermata dall’art. 61 n. 11 c.p., aggravante comune posta a presidio dell’abuso di una siffatta relazione[16]. 2.6. In via ultronea e sempre a sostegno – almeno così pare – della concreta sussistenza di una posizione di garanzia, la Cassazione evidenzia inoltre che l’incidente occorso a Vannini avvenne in un’abitazione dove erano custodite armi in violazione degli obblighi normativamente imposti; che è indubbio possa individuarsi una precedente attività pericolosa imputabile ad A.C.; che quest’ultimo violò specifici doveri di soccorso incombenti in ragione del suo ruolo di militare; che Vannini, ancora cosciente nelle fasi successive al ferimento, si affidò consapevolmente alle cure degli imputati[17]. 3. La Corte passa poi ad esaminare la questione dell’elemento soggettivo, prima in relazione alla posizione di A.C. e poi a quella degli altri tre imputati. 3.1. Si condividono le argomentazioni della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta configurabilità del dolo eventuale in capo ad A.C.[18]. In particolare, secondo la Corte, la finalità di evitare pregiudizi sul piano lavorativo non è di per sé incompatibile con l’adesione volontaria all’evento morte: nel caso di specie, infatti, il ferimento era ormai irreversibile e la morte avrebbe complicato l’accertamento delle rispettive responsabilità, non potendo la vittima raccontare l’accaduto[19]. La confessione fatta al medico della struttura dove avvenne il ricovero, con la richiesta di non far risultare nel referto la circostanza dello sparo, indizia non la speranza nutrita da A.C. che il ferito si sarebbe salvato, ma, piuttosto, che il tentativo di occultare la verità doveva necessariamente comportare la ricerca della complicità del medico, rimasta l’unica fonte attendibile della vicenda. E un siffatto ragionamento vale, secondo la Corte, anche rispetto alla rivelazione fatta ai genitori di Vannini da parte dei familiari di A.C.[20]. La Cassazione insiste poi, a riprova dell’accettazione dell’evento, sulla distanza dalla condotta doverosa omessa, sulla reiterazione e sulla protrazione del comportamento omissivo e sulla chiara rappresentazione della possibile verificazione dell’evento infausto. Non ricorrono, invece, elementi che possano denotare la speranza contraria: tali non sono né la pauci-sintomaticità della ferita, né la straordinaria traiettoria percorsa dal proiettile, né l’assenza di specifiche competenze tecniche, circostanze che, semmai, avrebbero dovuto indurre il garante a rappresentarsi l’evento letale quale esito di una plausibile emorragia interna[21]. E nella direzione che la morte non colse di sorpresa l’imputato va anche la persistenza e la pervicacia del suo comportamento mendace[22]. La Corte prende infine in considerazione il criterio dettato dalla c.d. formula di Frank. Scrivono i giudici che questa formula non è uno strumento affidabile d’indagine quando il caso da esaminare «si connota per un evento il cui verificarsi, pur messo in conto in modo calcolato, comporti per l’autore della condotta il sostanziale, più o meno integrale, fallimento del piano». In tali casi, non può comunque escludersi che l’agente abbia accettato l’evento pur consapevole che l’evento stesso vanificherebbe il risultato anelato. Inoltre, le Sezioni Unite hanno rilevato che il giudizio controfattuale sotteso alla formula di Frank è esperibile solo quando si disponga di informazioni altamente affidabili: nel caso di specie, anche a causa del comportamento pervicacemente omissivo e ostinatamente mendace degli imputati, ciò non è accaduto, sicché il criterio, pur importante, non può essere risolutivo[23]. 3.2. La Suprema Corte ritiene poi corretta la qualificazione di concorso in omicidio volontario con dolo eventuale addebitata agli altri imputati. Valorizzando plurimi dati di natura indiziaria, si reputa assodato che i familiari di A.C. avessero piena cognizione della circostanza dello sparo e della gravità della situazione[24]. Essi cooperarono alla gestione del ferito, senza però attivare i dovuti soccorsi[25]. Si ribadisce che non esclude la sussistenza del dolo eventuale l’assenza di specifiche competenze mediche, perché proprio tale circostanza avrebbe dovuto indurli, nell’incapacità di formare una diagnosi avveduta, ad allertare tempestivamente i soccorsi e a fornire ai sanitari le opportune informazioni sull’accaduto, invece che prestare acquiescenza alla decisione del padre in ordine alla superfluità dei soccorsi[26]. Peraltro, sostiene la Corte, l’ambito di applicazione del dolo eventuale risulterebbe drasticamente ridotto se esso potesse configurarsi soltanto in capo a soggetti dotati di specifiche competenze tecniche[27]. Tra gli elementi sintomatici specialmente valorizzati figurano poi il comportamento mendace e reticente posto in essere, ritenuto incompatibile con una condotta meramente colposa; nonché il tentativo di costruire una versione concordata dopo aver appreso della morte di Vannini[28] (poi fallito per le plurime contraddizioni emergenti dalle loro dichiarazioni[29]). Tutti questi elementi, conclude la Corte, comprovano la sussistenza del dolo eventuale in capo a tutti gli imputati, i quali hanno concorso sia nelle condotte attive di incauto intervento sul corpo, sia nell’omissione di una tempestiva sollecitazione di utili soccorsi[30]. Infine, la Corte si lascia andare ad una affermazione di principio in relazione alla scelta degli imputati di «ignorare i dati significativi della verificabilità dell’evento morte». Si scrive che «il dolo eventuale, pur configurandosi normalmente in relazione all’elemento volitivo, può attenere anche all’elemento intellettivo, quando l’agente consapevolmente rifiuti di accertare la sussistenza degli elementi in presenza dei quali il suo comportamento può comportare conseguenze dannose e, ciò nonostante, presti ad esse adesione»[31]. 4. Quanto all’ultimo tema, la Cassazione non condivide la sussumibilità della fattispecie all’interno dell’art. 116 c.p.[32] Dopo aver analiticamente sviscerato i requisiti dell’istituto, la Corte afferma che non è riscontrabile nel caso di specie un mutamento nell’agire o nella volontà di A.C., né un reato diverso scaturito dalla deviazione dalla volontà concordata dai compartecipi nolenti, né, ancora, la consapevolezza da parte di questi ultimi di cooperare nel delitto concordato di lesioni, poi mutato per opera di altro concorrente. Del resto, secondo i supremi giudici, il coefficiente psicologico che ha caratterizzato le condotte dei familiari non è riconducibile alla colpa ma al dolo (eventuale). E la stessa Corte del rinvio aveva diversificato i concorrenti rispetto all’intensità del dolo, con affermazione, dunque, contraddittoria rispetto alla ritenuta applicabilità dell’art. 116 c.p. 4.1. Tanto premesso, la Cassazione ritiene che le circostanze valorizzate dalla sentenza impugnata consentano invece l’applicazione dell’art. 114, comma terzo, c.p.[33] Non vi sarebbe infatti astratta incompatibilità tra tale attenuante e le condotte omissive tenute dagli imputati. Se tale incompatibilità si ravvisa rispetto all’attenuante della partecipazione di minima importanza di cui al comma primo dell’art. 114 c.p., lo stesso non accade rispetto all’attenuante di cui al comma terzo, che presuppone un rapporto di supremazia di un soggetto rispetto ad un altro, anche, eventualmente, derivante da una peculiare posizione rivestita in famiglia. Il dato qualificante della parallela aggravante di cui all’art. 112 n. 3 c.p. è infatti rappresentato da un comportamento che attenua in concreto, pur senza annullarla, la facoltà di reazione del soggetto “determinato” in forza di una peculiare soggezione psicologica. Nel caso di specie, sono molteplici gli elementi che depongono in tal senso: tra questi, in particolare, la gestione autoritaria di A.C., militare in carriera, nel corso della gestione dell’incidente e il correlativo comportamento dei suoi familiari, teso ad assecondare la volontà di occultare i fatti e depistare le indagini. 4.2. La Corte reputa infine che non sia necessario annullare la sentenza impugnata, potendo la Corte stessa procedere alla corretta qualificazione del fatto[34]. Da una parte, infatti, il trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 114 c.p. è il medesimo di quello determinato ai sensi dell’art. 116 c.p., non residuando, quindi, ulteriori spazi di riesame; dall’altra - e soprattutto – tale diversa qualificazione non viola i principi affermati dalla Corte Edu nella nota sentenza Drassich. Secondo la Cassazione gli imputati sono stati sin dall’inizio posti nella condizione di interloquire e difendersi in ordine alla qualificazione del fatto nei termini precisati, in quanto l’originaria imputazione faceva proprio riferimento al concorso nell’omicidio doloso commesso e al ruolo “dominante” rivestito dal capofamiglia nelle condotte che causarono la morte di Vannini. La qualificazione del fatto ai sensi degli artt. 110 e 114 comma terzo c.p. appare allora quale uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, non integrando una qualificazione “a sorpresa” suscettibile di violare il diritto convenzionale ad un processo equo. |
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