Nota di Michele Spina in sistemapenale.it a Cass., Sez. V, sent. 3 maggio 2021 (dep. 19 luglio 2021), n. 27905, Pres. Bruno, est. Miccoli, ric. Ciontoli e altri
1. Con la sentenza in commento la Quinta Sezione della Corte di Cassazione ha definito con effetto di giudicato la vicenda relativa all’omicidio di Marco Vannini. Essa è già ampiamente nota alla letteratura specialistica, e non necessita quindi di ulteriore rammento. Occorre invece ripercorrere le tappe processuali del caso per capire come si è arrivati al presente epilogo decisorio, con l’adesione completa alle richieste dell’accusa dopo qualche inatteso ostacolo iniziale. Come si ricorderà, per l’omicidio del giovane Vannini era stato contestato ad A. C. e ai suoi familiari il reato di omicidio volontario mediante omissione, con la sola eccezione di V.G., rinviata a giudizio per omissione di soccorso e subito assolta in primo grado. La volontarietà dell’omicidio era stata però esclusa dalla Corte di Assise di Roma con riferimento ai familiari di A.C., separando la loro posizione da quella dell’autore materiale dello sparo[1]. L’imputazione aveva poi trovato una ulteriore smentita nella sentenza di appello, che aveva derubricato in colposo anche il reato addebitabile ad A.C., con i relativi riflessi in punto di trattamento sanzionatorio[2]. Tale più benevola pronuncia era stata però cassata dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione, che l’aveva censurata, in particolare, per i vizi motivazionali attinenti all’accertamento dell’elemento soggettivo[3]. La Corte del rinvio era così tornata ad aderire all’impostazione accusatoria, condannando tutti gli imputati per omicidio volontario[4]. Per i familiari di A.C., tuttavia, a tale conclusione era giunta per mezzo dell’art. 116 c.p., sviluppando sul punto un controverso suggerimento contenuto nella sentenza rescindente[5]. La sentenza in commento, rigettando i ricorsi degli imputati contro la condanna pronunciata nel secondo giudizio di appello, ha definitivamente fatto chiarezza su alcuni aspetti rimasti oscuri nelle precedenti fasi processuali. In particolare, tre sono le questioni specialmente approfondite: 1) la configurabilità di una posizione di garanzia a carico di A.C. e dei suoi familiari; 2) il dubbio, una volta risolta in senso positivo la prima questione, sulla ricorrenza del dolo eventuale; 3) l’effettiva pertinenza del richiamo all’istituto del concorso anomalo ex art. 116 c.p. Aspetti rimasti oscuri, dicevamo, anche perché su di essi avevano unanimemente insistito, in senso critico, i primi commentatori, costringendo la Suprema Corte a replicare indirettamente pure a quelle prime perplessità[6]. 2. Procediamo nell’ordine poc’anzi enunciato, tralasciando di analizzare le questioni collaterali meno importanti. In primo luogo, la Quinta Sezione della Cassazione reputa applicabile l’art. 40 cpv e, dunque, configurabile una posizione di garanzia in capo a tutti gli appartenenti alla famiglia C., pur notando che si tratta di questione già definita e vincolante per il giudice del rinvio ex art. 627 c.p.p.[7] 2.1. Anzitutto, rigettando un’eccezione d’incostituzionalità sollevata dalla difesa, la Corte ritiene che l’art. 40 cpv non ponga problemi di indeterminatezza descrittiva. Il fondamento della responsabilità omissiva si basa infatti sulla necessità di «assicurare ad alcuni beni una tutela rafforzata», posto che i loro titolari non sono capaci di proteggerli in maniera adeguata. Del resto, la legalità penale tollera concetti elastici o clausole generali quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta, da una parte, al giudice di stabilirne il contenuto e, dall’altra, al destinatario della norma di avere una percezione sufficiente e chiara del relativo valore precettivo[8]. 2.2. Chiarita la legittimità costituzionale dell’art. 40, secondo comma, c.p., la Corte prosegue ricordando che, in relazione al caso di specie, la fonte della posizione di garanzia fu individuata dalla sentenza rescindente nell’assunzione volontaria di un dovere di protezione. Una figura che si inserisce nel «consolidato orientamento giurisprudenziale volto a riconoscerne la validità anche quando nessuna norma o contratto preveda tale situazione». Tale interpretazione a-formalistica della posizione di garanzia affonda le sue radici nella Costituzione e, in particolare, nei doveri inderogabili ex art. 2 Cost. In altri termini, il rilievo costituzionale dei beni giuridici coinvolti, secondo la Corte, supporta la possibilità di assumere unilateralmente doveri di garanzia, attraverso una mera “presa in carico” volta ad impedire che un soggetto incapace possa rimanere vittima di una situazione di pericolo[9]. 2.3. Ancora, la sentenza ricorda il dibattito dottrinale tra la c.d. teoria formale e la c.d. teoria contenutistico-funzionale, aderendo espressamente alla seconda opzione. La posizione di garanzia non va individuata in una fonte formale dell’ordinamento giuridico, ma costruita in base allo «scopo di protezione della norma incriminatrice», verificando i seguenti presupposti: a) la particolare vulnerabilità del bene protetto, ossia la presenza di un bene giuridico meritevole di una tutela rafforzata per l’incapacità del suo titolare di proteggerlo adeguatamente; b) l’affidamento del suddetto bene a un terzo-garante anteriormente alla verificazione della situazione di pericolo; c) il potere di intervenire sul decorso causale lesivo, così consentendo di restringere la platea dei garanti a chi abbia determinato un aumento del rischio per il bene tutelato[10]. Rievocando la motivazione della sentenza rescindente e notando come essa acceda alla teoria contenutistico-funzionale, la Corte ravvisa – pur con qualche reticenza, come vedremo – tutti i suddetti requisiti nel caso di specie[11]. 2.4. La motivazione della sentenza prende però a questo punto una decisa sterzata. Se finora l’attenzione della Corte si era concentrata sulla matrice funzionalistica dell’assunzione volontaria, si valorizza ora un ulteriore dato[12]: la condizione di ospite del Vannini all’interno dell’abitazione degli imputati. Dall’ospitalità si fa derivare «l’assunzione di una posizione speciale di garanzia», non surrogabile mediante l’intervento di terzi estranei. Infatti, nessuno avrebbe potuto accedere all’abitazione senza il consenso degli imputati, pacificamente titolari dello ius excludendi alios. Vannini, in definitiva, era titolare del diritto ad essere soccorso dai propri “ospitanti”, distinguendosi così anche la posizione di questi ultimi da quella di V.G, anche lei ospite della famiglia C. e per questo attinta dalla diversa imputazione di cui all’art. 593 c.p.[13] 2.5. Si offre allora alla Corte l’occasione di meglio precisare i confini tra l’omissione propria (art. 593 c.p.) e quella impropria generata dal rapporto di ospitalità (art. 40, comma 2, c.p.)[14]. Con la prima si punisce chiunque si trova occasionalmente a contatto diretto con una persona in stato di pericolo; occasionalità da correlare al fatto che chiunque può essere soggetto attivo del reato, indipendentemente da rapporti specifici intercorrenti con la persona da soccorrere. Nella seconda, invece, il soggetto tenuto ad attivarsi a tutela dell’incolumità altrui non coincide con il quisque de populo, ma è il solo in grado di provvedere all’attivazione dei soccorsi, essendo «preventivamente individuabile come titolare di fatto del relativo potere, in virtù della circostanza che questi si trova in un ambiente privato»[15]. La Corte nega altresì che l’ospitalità dia luogo a rapporti non vincolati che trovano fonte nella “mera cortesia”. L’ospitalità rileva infatti come «fonte di affidamenti protettivi individualizzati, perché lo spettro dei destinatari dell’obbligo di soccorso resta oggettivamente delimitato proprio dalla condizione di presenza nella stessa abitazione». La particolare considerazione della relazione di ospitalità è del resto confermata dall’art. 61 n. 11 c.p., aggravante comune posta a presidio dell’abuso di una siffatta relazione[16]. 2.6. In via ultronea e sempre a sostegno – almeno così pare – della concreta sussistenza di una posizione di garanzia, la Cassazione evidenzia inoltre che l’incidente occorso a Vannini avvenne in un’abitazione dove erano custodite armi in violazione degli obblighi normativamente imposti; che è indubbio possa individuarsi una precedente attività pericolosa imputabile ad A.C.; che quest’ultimo violò specifici doveri di soccorso incombenti in ragione del suo ruolo di militare; che Vannini, ancora cosciente nelle fasi successive al ferimento, si affidò consapevolmente alle cure degli imputati[17]. 3. La Corte passa poi ad esaminare la questione dell’elemento soggettivo, prima in relazione alla posizione di A.C. e poi a quella degli altri tre imputati. 3.1. Si condividono le argomentazioni della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta configurabilità del dolo eventuale in capo ad A.C.[18]. In particolare, secondo la Corte, la finalità di evitare pregiudizi sul piano lavorativo non è di per sé incompatibile con l’adesione volontaria all’evento morte: nel caso di specie, infatti, il ferimento era ormai irreversibile e la morte avrebbe complicato l’accertamento delle rispettive responsabilità, non potendo la vittima raccontare l’accaduto[19]. La confessione fatta al medico della struttura dove avvenne il ricovero, con la richiesta di non far risultare nel referto la circostanza dello sparo, indizia non la speranza nutrita da A.C. che il ferito si sarebbe salvato, ma, piuttosto, che il tentativo di occultare la verità doveva necessariamente comportare la ricerca della complicità del medico, rimasta l’unica fonte attendibile della vicenda. E un siffatto ragionamento vale, secondo la Corte, anche rispetto alla rivelazione fatta ai genitori di Vannini da parte dei familiari di A.C.[20]. La Cassazione insiste poi, a riprova dell’accettazione dell’evento, sulla distanza dalla condotta doverosa omessa, sulla reiterazione e sulla protrazione del comportamento omissivo e sulla chiara rappresentazione della possibile verificazione dell’evento infausto. Non ricorrono, invece, elementi che possano denotare la speranza contraria: tali non sono né la pauci-sintomaticità della ferita, né la straordinaria traiettoria percorsa dal proiettile, né l’assenza di specifiche competenze tecniche, circostanze che, semmai, avrebbero dovuto indurre il garante a rappresentarsi l’evento letale quale esito di una plausibile emorragia interna[21]. E nella direzione che la morte non colse di sorpresa l’imputato va anche la persistenza e la pervicacia del suo comportamento mendace[22]. La Corte prende infine in considerazione il criterio dettato dalla c.d. formula di Frank. Scrivono i giudici che questa formula non è uno strumento affidabile d’indagine quando il caso da esaminare «si connota per un evento il cui verificarsi, pur messo in conto in modo calcolato, comporti per l’autore della condotta il sostanziale, più o meno integrale, fallimento del piano». In tali casi, non può comunque escludersi che l’agente abbia accettato l’evento pur consapevole che l’evento stesso vanificherebbe il risultato anelato. Inoltre, le Sezioni Unite hanno rilevato che il giudizio controfattuale sotteso alla formula di Frank è esperibile solo quando si disponga di informazioni altamente affidabili: nel caso di specie, anche a causa del comportamento pervicacemente omissivo e ostinatamente mendace degli imputati, ciò non è accaduto, sicché il criterio, pur importante, non può essere risolutivo[23]. 3.2. La Suprema Corte ritiene poi corretta la qualificazione di concorso in omicidio volontario con dolo eventuale addebitata agli altri imputati. Valorizzando plurimi dati di natura indiziaria, si reputa assodato che i familiari di A.C. avessero piena cognizione della circostanza dello sparo e della gravità della situazione[24]. Essi cooperarono alla gestione del ferito, senza però attivare i dovuti soccorsi[25]. Si ribadisce che non esclude la sussistenza del dolo eventuale l’assenza di specifiche competenze mediche, perché proprio tale circostanza avrebbe dovuto indurli, nell’incapacità di formare una diagnosi avveduta, ad allertare tempestivamente i soccorsi e a fornire ai sanitari le opportune informazioni sull’accaduto, invece che prestare acquiescenza alla decisione del padre in ordine alla superfluità dei soccorsi[26]. Peraltro, sostiene la Corte, l’ambito di applicazione del dolo eventuale risulterebbe drasticamente ridotto se esso potesse configurarsi soltanto in capo a soggetti dotati di specifiche competenze tecniche[27]. Tra gli elementi sintomatici specialmente valorizzati figurano poi il comportamento mendace e reticente posto in essere, ritenuto incompatibile con una condotta meramente colposa; nonché il tentativo di costruire una versione concordata dopo aver appreso della morte di Vannini[28] (poi fallito per le plurime contraddizioni emergenti dalle loro dichiarazioni[29]). Tutti questi elementi, conclude la Corte, comprovano la sussistenza del dolo eventuale in capo a tutti gli imputati, i quali hanno concorso sia nelle condotte attive di incauto intervento sul corpo, sia nell’omissione di una tempestiva sollecitazione di utili soccorsi[30]. Infine, la Corte si lascia andare ad una affermazione di principio in relazione alla scelta degli imputati di «ignorare i dati significativi della verificabilità dell’evento morte». Si scrive che «il dolo eventuale, pur configurandosi normalmente in relazione all’elemento volitivo, può attenere anche all’elemento intellettivo, quando l’agente consapevolmente rifiuti di accertare la sussistenza degli elementi in presenza dei quali il suo comportamento può comportare conseguenze dannose e, ciò nonostante, presti ad esse adesione»[31]. 4. Quanto all’ultimo tema, la Cassazione non condivide la sussumibilità della fattispecie all’interno dell’art. 116 c.p.[32] Dopo aver analiticamente sviscerato i requisiti dell’istituto, la Corte afferma che non è riscontrabile nel caso di specie un mutamento nell’agire o nella volontà di A.C., né un reato diverso scaturito dalla deviazione dalla volontà concordata dai compartecipi nolenti, né, ancora, la consapevolezza da parte di questi ultimi di cooperare nel delitto concordato di lesioni, poi mutato per opera di altro concorrente. Del resto, secondo i supremi giudici, il coefficiente psicologico che ha caratterizzato le condotte dei familiari non è riconducibile alla colpa ma al dolo (eventuale). E la stessa Corte del rinvio aveva diversificato i concorrenti rispetto all’intensità del dolo, con affermazione, dunque, contraddittoria rispetto alla ritenuta applicabilità dell’art. 116 c.p. 4.1. Tanto premesso, la Cassazione ritiene che le circostanze valorizzate dalla sentenza impugnata consentano invece l’applicazione dell’art. 114, comma terzo, c.p.[33] Non vi sarebbe infatti astratta incompatibilità tra tale attenuante e le condotte omissive tenute dagli imputati. Se tale incompatibilità si ravvisa rispetto all’attenuante della partecipazione di minima importanza di cui al comma primo dell’art. 114 c.p., lo stesso non accade rispetto all’attenuante di cui al comma terzo, che presuppone un rapporto di supremazia di un soggetto rispetto ad un altro, anche, eventualmente, derivante da una peculiare posizione rivestita in famiglia. Il dato qualificante della parallela aggravante di cui all’art. 112 n. 3 c.p. è infatti rappresentato da un comportamento che attenua in concreto, pur senza annullarla, la facoltà di reazione del soggetto “determinato” in forza di una peculiare soggezione psicologica. Nel caso di specie, sono molteplici gli elementi che depongono in tal senso: tra questi, in particolare, la gestione autoritaria di A.C., militare in carriera, nel corso della gestione dell’incidente e il correlativo comportamento dei suoi familiari, teso ad assecondare la volontà di occultare i fatti e depistare le indagini. 4.2. La Corte reputa infine che non sia necessario annullare la sentenza impugnata, potendo la Corte stessa procedere alla corretta qualificazione del fatto[34]. Da una parte, infatti, il trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 114 c.p. è il medesimo di quello determinato ai sensi dell’art. 116 c.p., non residuando, quindi, ulteriori spazi di riesame; dall’altra - e soprattutto – tale diversa qualificazione non viola i principi affermati dalla Corte Edu nella nota sentenza Drassich. Secondo la Cassazione gli imputati sono stati sin dall’inizio posti nella condizione di interloquire e difendersi in ordine alla qualificazione del fatto nei termini precisati, in quanto l’originaria imputazione faceva proprio riferimento al concorso nell’omicidio doloso commesso e al ruolo “dominante” rivestito dal capofamiglia nelle condotte che causarono la morte di Vannini. La qualificazione del fatto ai sensi degli artt. 110 e 114 comma terzo c.p. appare allora quale uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, non integrando una qualificazione “a sorpresa” suscettibile di violare il diritto convenzionale ad un processo equo.
5. La sentenza in esame risponde ai principali interrogativi sollevati dal caso e in ciò sta anche il suo principale merito: evitare di rifugiarsi nelle semplificazioni probatorie che avevano contraddistinto le motivazioni offerte nei precedenti gradi, affrontando “di petto” tutte le questioni emerse.
5.1. Esemplare in tal senso è il modo in cui la Corte risolve il quesito pregiudiziale, quello relativo alla posizione di garanzia[35]. Pur potendo trincerarsi dietro la scure del giudicato parziale, la Cassazione torna sul tema per la quinta volta, fornendo sempre la stessa risposta ma con una giustificazione finalmente chiara e tranchant: in adesione alla c.d. teoria funzionale, si afferma che la posizione di garanzia può e deve ricercarsi negli estremi del fatto, senza il bisogno di una norma-fonte costitutiva che la mantenga nel perimetro sicuro della riserva di legge[36]. Non solo: pur conservando formalmente inalterato l’impianto dicotomico della sentenza rescindente, che aveva individuato la fonte della posizione di garanzia tanto in una pretesa assunzione volontaria e unilaterale, quanto nei rapporti qualificati tra la vittima e gli imputati, la Corte pare decisamente optare per il secondo degli inquadramenti suddetti. L’assunzione volontaria, infatti, viene più che altro evocata quale figura prototipica della generale ammissibilità di doveri di protezione ex facto, mentre è sul rapporto di ospitalità che si segna il decisivo discrimine con il reato di omissione di soccorso e, soprattutto, si individua l’unica circostanza capace di giustificare una preventiva presa in carico del bene da proteggere. In proposito va fatta una premessa Come si ricorderà, proprio sul carattere della c.d. precostituzione si erano concentrate le unanimi perplessità della dottrina, la quale aveva convincentemente obiettato che, anche a volere discorrere di una assunzione unilaterale, tale controversa figura non avrebbe potuto comunque adattarsi al caso di specie: la posizione di garanzia, infatti, deve necessariamente sussistere prima che il rischio prevenuto si concretizzi, e non può mai generarsi in modo postumo; altrimenti, si confonderebbe il dovere preventivo di garanzia con il dovere successivo di soccorso, trasformando in garanti tutti i soggetti obbligati ex art. 593 c.p.[37] Da questa essenziale obiezione teorica se ne articolava un’altra pratica: una posizione di garanzia assunta unilateralmente dopo la concretizzazione del pericolo incentiverebbe la fuga dell’obbligato rispetto alla presa in carico del bene da proteggere, posto che in conseguenza della prima non si potrebbe comunque fuoriuscire dall’imputazione per omissione di soccorso, mentre in conseguenza della seconda si rischierebbe di rispondere dei più gravi reati di lesioni ed omicidio[38]. Nella lettura sostanzialistica del reato omissivo improprio patrocinata dalla Cassazione, la posizione di garanzia nasce dall’affidamento preventivo ad un terzo garante di un bene vulnerabile meritevole di protezione. Ma, come si diceva, è proprio sul ricorrere di tale carattere preventivo che la parte di motivazione dedicata all’assunzione volontaria pare incagliarsi, sorreggendosi, sul punto, esclusivamente su alcuni passaggi della sentenza rescindente[39]; passaggi invero assai poco decisivi, visto che proprio intorno ad essi la dottrina mosse e formulò le sue obiezioni. Non è un caso, allora, che la Corte viri poi decisamente sul rapporto di ospitalità quale fonte autentica della posizione di garanzia. Si tratta di un rapporto effettivamente preesistente al ferimento della vittima, e al contempo capace di segnare un solco tra la posizione del “chiunque” su cui grava l’obbligo di soccorso e la diversa posizione degli imputati. Sostiene la Corte che Vannini poteva contare sulla specifica protezione, in caso di bisogno, della famiglia che l’ospitava; ciò giustificherebbe anche l’omissione di soccorso contestata a V.G., che di quella famiglia, infatti, non faceva parte e come Vannini era un ospite all’interno della casa. Del resto, nelle situazioni di convivenza od ospitalità è proprio la compresenza nello stesso domicilio che impedisce il soccorso da parte di terzi estranei, producendo affidamenti specifici di reciproca e diligente assistenza in caso di eventi avversi. Ci sembra che il ragionamento della Corte, in questa parte, sia in linea con le considerazioni contenute in un nostro precedente scritto[40]. Ma se ne discosta nella parte conclusiva, ritenendo che l’ospitalità non solo possa generare aspettative di natura sociale, ma trovi un generale fondamento in norme giuridiche e in particolare nell’art. 61 n. 11 c.p. Come notammo a suo tempo, questa disposizione effettivamente conferma che l’ospitalità produce affidamenti protettivi individualizzati, ma non può ammettersi, anche, che essa codifichi una posizione di garanzia in capo al soggetto ospitante, ovvero, più in generale, che renda giuridicamente coercibile la relazione di ospitalità pure al di fuori del suo ristretto ambito applicativo. L’aggravante dimostra soltanto che nella generalità dei casi l’ospite allenta le proprie difese nei confronti di chi lo accoglie; ed è proprio il tradimento della fiducia così suscitata che giustifica il previsto aumento sanzionatorio. Nulla di più, però: perché un dovere protettivo non può discendere da una norma sanzionatoria, né essa può essere interpretata come se sancisse la generale rilevanza della relazione di ospitalità, avendo, come tutte le norme sanzionatorie, carattere tassativo ed eccezionale. Per tali ragioni osservammo che la relazione di ospitalità, se suscita affidamenti protettivi individualizzati sul piano sociale, non genera altrettanti obblighi di garanzia sul piano giuridico. La posizione di garanzia del soggetto ospitante è infatti sprovvista di qualunque base legale. La circostanza, da noi ritenuta decisiva per scartare la praticabilità di una simile ricostruzione de iure condito[41], può tuttavia risultare superflua nella prospettiva ultra-sostanzialistica adottata dalla Cassazione. L’art. 61 n. 11 c.p. degrada in quest'ottica a semplice indice sintomatico di un rapporto di garanzia modellato sul caso, senza necessità di ulteriori intermediazioni normative. Così inteso, il riferimento della Corte appare coerente con le premesse teoriche iniziali: il soggetto ospitante è un garante di fatto, perché le circostanze del caso lo individuano come destinatario di affidamenti specifici e come unico possibile titolare di poteri di intervento; la norma citata riflette l'assetto cristallizzato dei rapporti sociali. Il problema si sposta allora sulla ritenuta validità della teoria funzionale, se cioè possa davvero concepirsi, in un sistema in cui vige il principio di stretta legalità, una posizione di garanzia ritratta interamente dal caso. 5.2. Un interrogativo complesso, intorno al quale ci limitiamo a queste poche considerazioni. Nel territorio dell’omissione impropria la legalità penale mostra senz’altro i suoi difetti più evidenti, motivo per il quale, anche in seno alle teorie più attente alle garanzie formali, si sono da sempre consumate criticità e tensioni. Si pensi alla figura della c.d. ingerenza o precedente attività pericolosa, alle varie articolazioni della assunzione volontaria, al criterio dell’effettività prima che trovasse isolati recepimenti normativi, oppure alla teoria civilistica del contatto sociale, scomodata anche di recente per individuare garanti praeter legem[42]. Tentativi, questi, spesso criticati in dottrina pur nella consapevolezza che talune di quelle figure dovessero trovare espressa tipizzazione da parte della legge, come accaduto in altri ordinamenti, al fine di conferire base legale a situazioni meritevoli di tutela rafforzata[43]. Non si può però omettere di ricordare, pur nel descritto quadro critico della legalità calata nel contesto dell’omissione impropria, quanto il principio di legalità garantisca il cittadino da decisioni imprevedibili e arbitrarie. E questa considerazione vale a più forte ragione nel contesto del reato omissivo improprio, dove l’ordinamento pretende dal cittadino un’azione positiva, limitando al massimo la sua libertà. La constatazione che la legalità presenta punti oscuri e debolezze, insomma, non vale ad accantonarla: e la sentenza in commento è un ottimo terreno di prova per misurare la tenuta di una simile osservazione. La Cassazione ha individuato nell’ospite, inteso come colui che accoglie altro soggetto nel luogo in cui vive o di cui dispone con poteri di interdizione (c.d. ius excludendi alios), un garante della vita e dell’incolumità fisica del soggetto ospitato. Lo ha fatto, consapevolmente e dichiaratamente, formulando essa stessa la situazione tipica da cui nasce la posizione di garanzia: la relazione di ospitalità, la titolarità di poteri interdittivi, l’affidamento protettivo del soggetto ospitato. Tale sforzo descrittivo non assicura però alcuna stabilità alla fattispecie, né garantisce il cittadino da possibili, futuri abusi; superata la riserva di legge, i presupposti per configurare la responsabilità dell’ospite-garante sono di fatto rimessi alla futura evoluzione giurisprudenziale, senza peraltro i limiti dell’irretroattività, della determinatezza e del divieto di analogia. E quale intensità dovrà possedere la suddetta relazione, quali i beni giuridici coinvolti nello spettro dell’affidamento protettivo – se solo i beni personali o, anche, quelli di natura patrimoniale – nonché quali relazioni analoghe dovranno soggiacere alla medesima regola per intuitiva identità di ratio (si pensi ad es. alla convivenza), sono tutte domande che disegnano i pericoli della caduta della legalità formale in questo settore. Se, in definitiva, la sentenza della Cassazione convince per coraggio e chiarezza espositiva, avendo operato scelte di campo definitive e importanti nella delicata materia del reato omissivo improprio, non possono tuttavia sottacersi i rischi che una generalizzazione dei principi espressi in motivazione potrebbe determinare nell’immediato futuro. 6. Quanto al tema del dolo eventuale, la Cassazione svolge considerazioni che, a nostro avviso, sono esemplificative di un atteggiamento giurisprudenziale ancora ondivago e recalcitrante rispetto alle coordinate fissate nella sentenza Thyssenkrupp. 6.1. La Corte, anzitutto, ribadisce la compatibilità tra il momento volontaristico del dolo eventuale e il fine di evitare pregiudizi di carriera. Tale compatibilità svaluta il ruolo euristico e indiziario della c.d. formula di Frank, che, in effetti, secondo autorevole dottrina avrebbe il solo corollario pratico di escludere dall’area della punibilità dolosa le ipotesi di c.d. fallimento del piano[44]. La Cassazione, per giustificare la svalutazione operata, cita un passaggio della sentenza Thyssenkrupp in cui si afferma che il controfattuale sotteso alla formula di Frank non può essere esperito laddove manchino «informazioni altamente affidabili», come accaduto nel caso di specie a causa del comportamento mendace degli imputati. Tuttavia, è chiaro che, con l’espressione evidenziata, le Sezioni Unite alludevano a informazioni denotanti il fine soggettivo perseguito dell’agente, quando, cioè, nelle parole stesse del noto arresto, «neppure l’interessato saprebbe rispondere a una domanda del genere». Ma il mendacio degli imputati non ha affatto influito sulla corretta ricostruzione del fine per cui A.C. e i suoi familiari omisero di attivare i soccorsi e fornirono informazioni reticenti e false agli operatori sanitari; la formula, in realtà, pecca prevalentemente in contesti dove il fine perseguito dall’agente rimane offuscato da componenti emotivo-impulsive della condotta, e dove, appunto, neppure questi saprebbe dire come avrebbe agito se si fosse prefigurato come certa la lesione[45]. 6.2. La ragione della scarsa considerazione attribuita in sentenza alla formula di Frank si deve allora alla complessiva scarsa considerazione dell’elemento volitivo del dolo, che quella formula tende ad accertare. Tutta la motivazione della Corte è infatti sbilanciata sul momento rappresentativo, secondo un sentiero già tracciato dalla sentenza rescindente[46]. La consapevolezza che il colpo d’arma da fuoco era rimasto nel corpo della vittima, la consapevolezza, quindi, della gravità dell’accaduto, doveva suscitare la rappresentazione chiara dell’evento lesivo e, in particolare, di un’emorragia interna da fronteggiare nell’immediatezza. E nessun elemento, secondo la Corte, è capace di insinuare il dubbio che gli imputati abbiano maturato la speranza di un esito diverso[47]. In definitiva, la Cassazione utilizza, nella terminologia e nelle scelte lessicali, formule che apertamente richiamano gli stilemi argomentativi della teoria dell’accettazione del rischio[48]; e nella parte conclusiva, peraltro, non se ne fa mistero. Con la consueta schiettezza, la Corte afferma il principio per cui il dolo eventuale può «attenere anche all’elemento intellettivo», se il soggetto consapevolmente rifiuta di considerare i segnali d’allarme di possibili conseguenze dannose e, ciò nonostante, «presti ad esse adesione»[49]. L’adesione volontaristica è qui espressamente desunta dall’intensità dell’elemento intellettivo e riferita alle potenzialità dannose della condotta, non al loro effettivo dispiegarsi. Quale migliore riprova che la Cassazione ha in realtà utilizzato, a sostegno delle proprie conclusioni, il criterio dell’accettazione del rischio? 7. Deve infine ritenersi pienamente condivisibile la motivazione della sentenza in merito all’inapplicabilità dell’art. 116 c.p. Questa peculiare ipotesi, come giustamente osserva la Corte, presuppone una deviazione anomala nell’iter criminis attuata da un concorrente contro la volontà degli altri; rappresentava una forzatura, dunque, la prospettata possibilità che i familiari di A.C., concertato e voluto l’evento “lesioni”, potessero rispondere ai sensi dell’art. 116 c.p. dell’evento “omicidio” commesso e voluto dal capofamiglia, in quanto prevedibile sviluppo di quella previa concertazione[50]. E ciò non solo perché, come afferma la Corte, non si assiste nel caso di specie ad alcuna previa concertazione e, dunque, ad alcuna deviazione/mutamento rispetto ad un preteso programma criminoso iniziale; ma – soprattutto – perché la norma presuppone una diversità di tipo oggettivo non limitata al nomen iuris del reato applicabile. La norma non parla, infatti, solo di un “reato diverso”, ma di un “diverso reato commesso”. Se quindi il compartecipe è in dolo rispetto a un evento più grave di quello concordato (ad es. omicidio), ma, concretamente, non apporta alcuna variazione oggettiva al piano originario (rimane cioè inerte, anziché infliggere una pugnalata), agli altri concorrenti non si estende il suo titolo di responsabilità. Egli non ha “commesso” un reato diverso; muta però il titolo che gli è addebitabile in ragione del diverso coefficiente soggettivo che animava la sua azione od omissione. Non sarebbe stata sufficiente, allora, ad integrare l’ipotesi di cui all’art. 116 c.p. la sussistenza del dolo omicidiario in capo a taluno dei concorrenti, e ciò anche se gli imputati avessero realmente concordato di attendere la chiamata dei soccorsi nella comune volontà di causare ulteriori sofferenze al ferito. La tesi suggerita dalla sentenza rescindente era forse inficiata dal seguente errore: considerare il reato di lesioni non assorbito nell'omicidio colposo conseguente alla verificazione della morte, in modo da ravvisare una diversità di titolo anche materiale da estendere ai compartecipi nolenti. Il quesito, peraltro, non ha neppure ragione di porsi se si afferma, come sostenuto dalla Cassazione, che tutti gli imputati versassero in dolo rispetto all’evento morte. 8. Merita infine un cenno la prospettata riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 114 c.p., il quale va idealmente a sostituire la respinta applicazione dell’art. 116 c.p. Va rilevato in proposito un potenziale contrasto tra l’affermata posizione di soggezione dei familiari di A.C. e il dolo eventuale comunque ravvisato in capo a costoro. La soluzione adottata dalla Cassazione pretende di riscontrare un effetto di duplice “rarefazione” della volontà, che si osserva sia sotto il profilo dell’adesione all’evento, sia sotto il profilo della libertà di autodeterminazione, senza interferenze reciproche. È questo un assunto che andrebbe dimostrato, o, quantomeno, problematizzato per non cadere in costruzioni artificiose lontane da dinamiche psicologiche reali. Pare infatti agevole obiettare che se gli imputati sono stati davvero soggetti al condizionamento di A.C., l’evento morte non sia stato da loro accettato «costi quel che costi», in un macabro impeto d’altruismo familiare ma, semmai, la prospettiva dello stesso sia stata stornata dalla fiducia e dall’obbedienza prestate all’autorità dominante del capofamiglia. Con una rappresentazione, quindi, dell’evento lesivo talmente “rarefatta” da cancellare da sé qualsiasi coloratura volontaristica. La questione del potenziale conflitto logico tra le due statuizioni è stata peraltro sottratta alla dialettica processuale, siccome la Corte ha ritenuto che la qualificazione da lei operata costituisse esito prevedibile dell’imputazione originaria. Anche questo profilo, in conclusione, suscita qualche dubbio e avrebbe forse meritato, a nostro sommesso avviso, un approfondimento ulteriore. [1] Corte di Assise di Roma, 18 aprile 2018 (dep. 13 giugno 2018), n. 11. [2] Corte di Assise di Appello di Roma, Sez. I, 29 gennaio 2019, (dep. 1 marzo 2019), n. 3, in Giur. Pen. (web), 2019, 4. [3] Cass. pen., Sez. I, 7 febbraio 2020 (dep. 6 marzo 2020), P.M. e altri, n. 9049. Per i commenti a questa sentenza, v. nota 4. [4] Corte di Assise di Appello di Roma, Sez. II, 30 settembre 2020, (dep. 29 ottobre 2020), in Giur. Pen. (web), 29 novembre 2020. [5] Ibidem, p. 74 ss. Per il “suggerimento”, Cass. pen., Sez. I, 7 febbraio 2020 (dep. 6 marzo 2020), P.M. e altri, n. 9049, § 54, p. 39-40. [6] B. Fragasso, La Cassazione sul caso Vannini: i rapporti tra omicidio mediante omissione e omissione di soccorso aggravata dall’evento morte in un noto caso di cronaca, in questa Rivista, 13 aprile 2020; F. Piergallini, Il “caso Ciontoli/Vannini”: un enigma ermeneutico ‘multichoice’, in DisCrimen, 25 giugno 2020, p. 1 ss.; M. Spina, Il “caso Vannini”. Brevi note su azione, omissione e obblighi di garanzia, in Arch. Pen. (web), 16 ottobre 2020, p. 1 ss.; A. Gargani, Lo strano caso dell’“azione colposa seguita da omissione dolosa”. Uno sguardo critico alla sentenza “Vannini”, in DisCrimen, 18 novembre 2020, p. 1 ss. Lambiscono il tema, altresì, S. De Blasis, Precisa enucleazione della posizione di garanzia come criterio selettivo nel reato omissivo improprio, in Dir. Pen. Proc., 2021, 4, p. 460 ss. e S. Prandi, Alla ricerca del fondamento: posizioni di garanzia fattuali tra vecchie e nuove perplessità, in Dir. Pen. Proc., 2021, 5, p. 654 ss. [7] § 2, p. 18 ss. [8] § 2.8. [9] § § 3, 3.1., 3.2. [10] § 3.3. Precisa infine la Corte che, oltre all’assunzione volontaria, la teoria contenutistico-funzionale contempla anche il contatto sociale quale possibile fonte di una posizione di garanzia, secondo la nota ricostruzione della giurisprudenza civile (§ 3.4.). [11] § 4, 4.1., 4.2. [12] Altrove definito “decisivo”: § 2.3., p. 20. [13] § 4.3. [14] § 4.4. [15] § 4.4., p. 29. [16] § 4.5. [17] § § 4.6., 4.7., 4.8. [18] § 7, 7.1., 7.2. [19] § 7.3. [20] 7.4 [21] Ibidem. [22] § 7.5. [23] § 7.6. [24] § 8.3. [25] § 8.4. [26] § 8.5. [27] § 8.7., p. 50. [28] § 8.5. [29] § 8.6. [30] § 8.7. [31] § 8.8, p. 50-51, cit. [32] § 9.1. [33] §§ 9.2. e 9.3. [34] §§ 9.4 e 9.5. [35] In argomento, F. Sgubbi, Responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, Padova, 1975; G. Fiandaca, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979; G. Grasso, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983; I. Leoncini, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Torino, 1999. Frequenti, inoltre, i riferimenti in letteratura ai saggi di F. Giunta, La posizione di garanzia, in Dir. pen. proc., 1999, 5, p. 620 ss., e F. Mantovani, Causalità, obbligo di garanzia e dolo nei reati omissivi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 984 ss.; Id. L'obbligo di garanzia ricostruito alla luce del principio di legalità, di solidarietà, di libertà e di responsabilità personale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 337 ss. [36] Per la migliore definizione di questa teoria si rinvia al lavoro monografico di G. Fiandaca, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979, nonché, per una esposizione riassuntiva più scettica nei confronti della stessa, a G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, Bologna, 2014, p. 644 ss. [37] Cfr. in particolare B. Fragasso, La Cassazione sul caso Vannini, cit.; F. Piergallini, Il “caso Ciontoli/Vannini”, cit., p. 18 ss.; M. Spina, Il “caso Vannini”, cit., p. 20 ss. [38] F. Piergallini, Il “caso Ciontoli/Vannini”, cit., p. 19; M. Spina, Il “caso Vannini”, cit., p. 9; 21-22. [39] cfr. § 4.2.2. della sentenza annotata. [40] cfr. M. Spina, Il “caso Vannini”, cit., p. § 5.2, 17-19. [41] L’impossibilità di ravvisare una posizione di garanzia prevista dalla legge fondava il nostro convincimento di dover ricercare la soluzione del caso nella riconsiderazione commissiva delle condotte tenute dagli imputati, come specie di “impedimento dell’altrui opera soccorritrice”, v. ibidem, p. 26 ss. Un riferimento a questo inquadramento è contenuto invero anche nella sentenza annotata, laddove si descrive il comportamento degli imputati come «condotta inibente un intervento salvifico che, a sua volta, avrebbe interrotto il decorso causale lesivo innescato dal ferimento della persona offesa», cit., p. 49 sentenza annotata. [42] Per il riferimento contenuto anche nella sentenza annotata, v. nota 10. [43] Sul punto v. la recente panoramica di S. Prandi, Alla ricerca del fondamento: posizioni di garanzia fattuali, cit., passim. [44] Sulla critica della formula fondata su questo aspetto, cfr. S. Prosdocimi, Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura della fattispecie, Milano, 1993, p. 16 ss.; S. Canestrari, Dolo eventuale e colpa cosciente, Milano, 1999, p. 47 ss.; G. Fiandaca, Sul dolo eventuale nella giurisprudenza più recente, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2012, 1, p. 154 ss. Sull’utilizzo ambiguo della formula da parte delle S.U. Thyssenkrupp, cfr. L. Eusebi, Formula di Frank e dolo eventuale in Cass. S. U., 24 aprile 2014, (Thyssenkrupp), in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 625 ss. e G. De Vero, Dolo eventuale e colpa cosciente: un confine tuttora incerto. Considerazioni a margine della sentenza delle Sezioni Unite sul Caso Thyssenkrupp, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 89 ss. [45] Cfr. D. Piva, Le componenti impulsive della condotta, Napoli, 2018, p. 1 ss., partic. p. 129 ss. [46] Cfr. D. Brunelli, Riflessioni sulla colpa con previsione, in Riv. it. dir. pen. proc., 2020, 3, p. 1284-1285. [47] In realtà, si nega la speranza di un esito fausto nella sola motivazione riguardante A.C., cfr. p. 39 sentenza annotata. A considerazioni analoghe si giunge però anche rispetto agli altri imputati, sia pure con parole diverse, cfr. partic. §§ 8.6 e 8.7. [48] All’accettazione del rischio faceva peraltro espresso riferimento la sentenza impugnata, della quale si citano ampi passaggi in § 8.6, p. 48-49. [49] Cfr. § 8.8., p. 50-51. [50] Per considerazioni critiche simili a quelle sviluppate in sentenza, cfr. F. Piergallini, Il “caso Ciontoli/Vannini”, cit., p. 27-29, a commento della prima sentenza di legittimità. |
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