Articolo di G. Fiandaca in www.sistemapenale.it
1. Polemiche politico-mediatiche e preoccupazioni allarmistiche, sollevate da scarcerazioni di boss mafiosi per rischio-contagio da Covid-19, sollecitano alcune considerazioni sui rapporti tra informazione giornalistica, opinione pubblica, ruolo/orientamenti della magistratura e decretazione d’urgenza da parte del governo. Anticipo subito una impressione complessiva: l’impressione cioè che, sul duplice piano della rappresentazione mediatica e della gestione politica della questione-scarcerazioni, abbia finito ancora una volta col prevalere una realtà comunicativamente e strumentalmente costruita rispetto – per dirla con Sciascia – alla realtà effettuale[1]. Si è assistito – direi – a una narrazione tendenziosa in chiave drammatizzante, basata sulla enfatizzazione di un conflitto di culture tra magistrati antimafia e magistrati di sorveglianza: rappresentati rispettivamente, di fronte alla pubblica opinione, nei contrapposti ruoli da un lato di rigorosi garanti della sicurezza dei cittadini e, dall’altro, di giudici deboli e inaffidabili perché incapaci di opporre resistenza a presunte pressioni mafiose (una sorta di magistrati ‘minorati’, da ricondurre dunque sotto la tutela e la guida dei colleghi dell’antimafia!). E a discreditare con effetti delegittimanti i magistrati dell’esecuzione penale hanno, invero, direttamente contribuito noti esponenti dell’antimafia giudiziaria, criticando con frequenti e allarmate esternazioni pubbliche i provvedimenti di scarcerazione emessi per ragioni di emergenza sanitaria. Questo del conflitto e delle polemiche interne all’ordine giudiziario, in effetti, è un problema che sollecita rilievi appositi che ho svolto in altro luogo. Mi limito qui a ribadire che, se la diversità di ruolo professionale incide certo sulla cultura o ideologia del magistrato, altra (e preoccupante) cosa è che questa diversità alla fine sfoci in contrapposizioni culturali così nette da apparire inconciliabili[2]. 2. L’aspetto che più dovrebbe fare riflettere – e, al tempo stesso, destare preoccupazione – riguarda l’andamento non solo tendenzioso, ma per certi versi anche manipolatorio della campagna allarmistica lanciata da importanti testate giornalistiche, non a caso abitualmente fiancheggiatrici dell’impegno antimafia delle procure. Con interventi frequenti e insistenti di cronisti e commentatori, si è puntato all’obiettivo di alimentare paura, sconcerto e indignazione pubblica, suscitando la falsa impressione di una notevole quantità di scarcerazioni di capi mafiosi in regime di 41 bis (sottoposti cioè al carcere duro per la loro rilevante e perdurante pericolosità) per improvvida sopravvalutazione del rischio-contagio da parte dei giudici autori dei relativi provvedimenti[3]. Questa enfasi drammatizzante, non a caso, tace (o, comunque, non esplicita) un dato tutt’altro che secondario: cioè che di capimafia di grosso calibro al 41 bis ne sono stati scarcerati soltanto tre (al massimo quattro)[4]. A ulteriore conferma dell’orientamento partigiano di questo stile informativo, va considerato lo spazio ripetutamente concesso non solo alle critiche dei procuratori, ma anche alle preoccupazioni manifestate sia da alcuni ex mafiosi “pentiti” divenuti collaboratori di giustizia, sia da parenti di giudici martiri della lotta alla mafia appositamente intervistati[5]. Sollecitare i “pentiti” a pronunciarsi contro le scarcerazioni serve – è chiaro – a ribadire l’ammonimento che la lotta alla mafia, per risultare efficace e credibile, deve mettere sempre e comunque al primo posto la segregazione dei boss, senza buonismi o cedimenti neppure per ragioni di emergenza sanitaria. Mentre lo sfruttamento mediatico del paradigma vittimario, nel far leva sulle perduranti ferite psicologiche delle vittime dei reati di mafia, avalla implicitamente l’idea sbagliata che la risposta punitiva dello Stato serva soprattutto ad assecondare bisogni di tipo emotivo-retributivo. 3. Ad ingarbugliare e a rendere ancora più conflittuale la vicenda delle scarcerazioni ha, non poco, contribuito il sopravvenuto conflitto tra il ministro Bonafede e il magistrato-simbolo dell’antimafia Nino Di Matteo[6]. Nel senso che la velata accusa rivolta dal secondo al primo, di avere nel 2018 ceduto alle proteste dei mafiosi al 41 bis che avversavano la preannunciata nomina del magistrato palermitano a capo del Dap, ha finito col ridestare sospetti (non sempre, peraltro, disinteressati!) di una possibile riemersione dello schema “trattavista”: vale a dire, di quella tendenza dello Stato italiano a venire a patti con le organizzazioni mafiose, di cui l’indagine storiografica ha fornito puntuali riscontri soprattutto rispetto alla storia meno recente, e che la differente ottica ricostruttiva privilegiata da non pochi magistrati antimafia tende invece (a nostro avviso, con pregiudiziale convinzione) a elevare a vera e propria costante fino ad anni a noi più vicini[7]. Ecco che, interpretata alla stregua del (presunto) paradigma della trattativa, la stessa recente scarcerazione di boss per motivi di salute si caricherebbe di valenze inquietanti in chiave di collusiva resa alla minacce mafiose. Interpretazione realistica, opportunisticamente strumentale o frutto di fobie nevrotiche? In realtà, è difficile dissentire da chi ha rilevato che accostare il fantasma trattativista a un politico grillino come Bonafede “sembra, più che azzardato, ingannevole”[8]. Altre sono, piuttosto, le ragioni che – specie agli occhi di uno studioso di orientamento liberaldemocratico – fanno apparire assai discutibili le idee e l’operato dell’attuale guardasigilli: esse – com’è intuibile – hanno a che fare con l’esasperato populismo punitivista che connota la sua azione riformistica e il suo stile operativo. 4. All’enfatizzazione mediatica del tema-scarcerazioni si è, per converso, accompagnata una tendenziale sottovalutazione del grave rischio di diffusione delle infezioni nelle carceri. Sia importanti quotidiani, sia trasmissioni televisive hanno ripetutamente dato voce a noti esponenti delle procure propensi a sostenere che il carcere, in quanto ambiente chiuso e controllato, consente una protezione dal contagio comparativamente maggiore rispetto a una collocazione dei detenuti in sedi domiciliari o in luoghi di cura esterni[9]. Dal canto suo, il procuratore nazionale antimafia ha per di più affermato che permettere che un’epidemia pur gravissima possa interrompere lo stato detentivo di mafiosi equivarrebbe a un segnale di debolezza, dal momento che “sarebbe come ammettere di non saper gestire le carceri (… ). Ci sono tutte le strutture, le professionalità, per assicurare ai detenuti al 41 bis tutta la sicurezza necessaria”[10]. Con tutto il rispetto per la competenza del procuratore nazionale, non sarei altrettanto sicuro. Piuttosto, la mia esperienza di garante regionale dei diritti dei detenuti mi induce a dubitare della idoneità delle strutture penitenziarie italiane, qualitativamente molto disomogenee e in non pochi casi degradate e mal funzionanti, a consentire una sufficiente prevenzione dell’infezione virale. Se finora il numero dei reclusi risultati “positivi” è rimasto tutto sommato contenuto[11], ciò è verosimilmente dovuto anche a fattori fortuiti che hanno giocato in senso favorevole. Comunque sia, l’allarmata attenzione concentrata sulle scarcerazioni ha avuto come effetto il silenzio-stampa sulla morte per Covid-19 di un detenuto anziano, ex tossicodipendente e affetto da patologie pregresse, contagiatosi nel carcere di Bologna; così come sono passati pressoché inosservati i decessi di altri quattro detenuti, di due agenti e di due medici penitenziari: “Amnesie selettive, perché elidere dall’informazione pezzi di realtà è forse l’unico modo per potere continuare a spacciare, al posto della realtà, la fiction del carcere come luogo più sicuro al mondo”[12]. 5. La grande preoccupazione indotta dalle polemiche politico-mediatiche, com’è noto, ha spinto il ministro Bonafede a preparare con concitata urgenza – si può dire “ad horas” – ben due decreti-legge, entrambi miranti all’obiettivo politico di confermare, con effetto di rassicurazione dei fronti più allarmati, che la tutela della sicurezza collettiva rimane ai primi posti nell’agenda di governo. Il primo decreto in data 30 aprile 2020 (precedente l’esplosione del conflitto col magistrato Di Matteo) ha inteso diffondere il messaggio che i magistrati di sorveglianza vanno sottoposti alla vigilanza delle procure: è per questo che si è prevista l’obbligatorietà di un parere (beninteso da interpretare come non vincolante, pena l’incostituzionalità dell’innovazione normativa) – a seconda dei casi – della procura nazionale e delle procure distrettuali antimafia ai fini della concessione di misure extradetentive ad autori di reati di criminalità organizzata[13]. Il secondo decreto 10 maggio 2020, concepito in maniera ancora più affrettata in seguito allo scontro col magistrato-simbolo, mostra con inoccultabile evidenza il volto di un provvedimento ad efficacia soprattutto simbolico-comunicativa. Mentre è chiaro l’obiettivo di autosalvataggio politico perseguito dal ministro Bonafede, scarsissimo è invece il contributo normativo che questo decreto reca in termini di vera e sostanziale innovazione: a ragione, un commentatore esperto di temi giudiziari ha ironicamente escogitato l’etichetta “decreto-Lapalisse”[14]. Infatti, si tratta di un provvedimento che non va molto al di là del ribadire forme di controllo giudiziario sui soggetti sottoposti a misure extracarcerarie che l’ordinamento già in precedenza consentiva: aggiungendo però la previsione di una nuova tempistica irrealistica, in quanto poco compatibile con i carichi di lavoro degli uffici giudiziari che dovrebbero osservarla (v. infra in questo stesso paragrafo). Esulando dal taglio di questo intervento analisi di tipo esegetico di tale duplice ‘ipermotorizzata’ decretazione, mi limito a qualche rilievo sommario. Rispetto innanzitutto alla previsione del parere obbligatorio delle procure, si tratta di una scelta normativa che – come è stato condivisibilmente rilevato – “non ha contribuito a realizzare un più ragionevole equilibrio tra le istanze contrapposte della prevenzione e della tutela dei diritti fondamentali della persona, ma che rivela il suo vero significato, tutto politico, di mostrare all’opinione pubblica la capacità dell’esecutivo di frenare giudici, sul cui operato – questo il messaggio – è bene sorvegliare”[15] (e – si può aggiungere – se ne può altresì desumere l’implicita sollecitazione, rivolta sempre ai giudici, a far prevalere la bilancia più sul lato della sicurezza). Ma c’è un ulteriore aspetto, tutt’altro che secondario, da porre nel dovuto rilievo, che riguarda precisamente le fonti conoscitive sulla cui base i magistrati delle procure formulano i pareri: essi dispongono di dati costantemente aggiornati, frutto di indagini empiriche rinnovate e affidabili sulla persistente pericolosità dei mafiosi reclusi, verificata anche in rapporto al perdurare di collegamenti con le associazioni criminali e i relativi contesti territoriali di riferimento? Personalmente mi permetterei di avanzare qualche dubbio in proposito, suffragato dall’esperienza concreta dei magistrati dell’esecuzione penale che hanno da tempo sperimentato forme di interlocuzione con i pm ai fini della valutazione di persistente pericolosità di mafiosi in stato detentivo. Come ha infatti dichiarato nell’ambito di una recente intervista Antonietta Fiorillo, giudice preposta alla guida del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza, il cosiddetto parere veniva di fatto richiesto anche prima che ne venisse di recente stabilita l’obbligatorietà: ma le procure – ecco il punctum dolens –, in luogo di fornire elementi fattuali di giudizio, sono solite inviare per lo più dati cartacei, vale a dire l’elenco delle sentenze di condanna o dei procedimenti in corso, per cui – obietta Fiorillo – “non ce ne facciamo niente: quegli atti li conosciamo già, sono il punto di partenza del nostro lavoro. A noi servono informazioni sull’attualità dei collegamenti con l’associazione mafiosa, i nuovi contesti criminali”[16]. Saranno in grado le procure, in futuro, di trasmettere utili conoscenze empiriche in luogo di dati cartacei? Lascio volutamente aperto l’interrogativo. Quanto al secondo e più recente decreto governativo, non mi addentro nell’analisi di profili strettamente procedurali che esulano oltretutto dalle mie dirette competenze. Ribadendo che si tratta di un giustamente etichettato “decreto-Lapalisse”, a causa – come poc’anzi anticipato – della mancanza di vere innovazioni di sostanza, ciò che di nuovo viene introdotto è costituito dalla previsione che i giudici dovranno rivalutare la permanenza dei motivi di salute connessi all’emergenza sanitaria in tempi molto ravvicinati (cioè una prima volta nei quindici giorni successivi alla pubblicazione ufficiale del decreto, e successivamente con cadenza mensile). Nel contempo, si esplicita che, prima di emettere nuovi provvedimenti, la magistratura dovrà chiedere alle autorità competenti se vi siano posti disponibili nelle strutture sanitarie penitenziarie o nei reparti protetti degli ospedali dove il condannato possa proseguire lo stato detentivo senza pregiudizio per le sue condizioni di salute. Orbene, il messaggio politico è evidente, ancorché implicito: la magistratura viene invitata a far rientrare il più presto possibile in cella i detenuti mafiosi già scarcerati. Ma, a parte la quantomeno dubbia legittimità di tale sollecitazione (e la non meno dubbia sua idoneità a condizionare effettivamente la valutazione giudiziaria), un effetto certo delle verifiche ripetute entro scadenze temporali brevi sarà quello di ingolfare ulteriormente gli uffici interessati, che avranno pertanto bisogno di un ampliamento delle risorse di personale peraltro insufficienti da anni[17]. Ma vi è di più. C’è altresì da prevedere che le verifiche periodiche sulle condizioni di salute individuale dei soggetti scarcerati, e nel contempo sull’andamento generale del rischio-contagio, nonché sulla possibilità di collocazione in strutture sanitarie intramurarie o esterne protette, siano destinate a incrementare informazioni trasmesse per via prevalentemente “cartacea” e a rendere ancora più complicate le interlocuzioni tra uffici di differente natura e competenza. Insomma, c’è da temere che questi appesantimenti burocratici possano alla fine risultare di ulteriore ostacolo – al di là della buona volontà dei magistrati tenuti a compiere le verifiche – a giudizi di bilanciamento basati su di una effettiva conoscenza dell’insieme dei dati fattuali rilevanti nei diversi casi concreti. 6. Provando, a questo punto, a ricavare dai rilievi che precedono motivi o spunti di ulteriore riflessione, evidenzierei (o ribadirei) i punti seguenti. 6.1. Sembra ricevere emblematica conferma l’influsso enorme che la comunicazione mediatica – tanto più se tendenziosa o distorsiva – esercita sia sulle reazioni del pubblico in tema di criminalità e carcere, sia sulle dinamiche politiche che condizionano i processi genetici e deliberativi di nuove norme in materia di giustizia penale. Questo influsso costituisce, d’altra parte, altresì un riflesso della tendenza delle forze politiche – accentuatasi nel corso degli anni – a orientare la politica penale alla stregua degli atteggiamenti e delle reazioni della pubblica opinione (o di suoi settori assunti, di volta in volta, a punto di riferimento di ascolto privilegiato), così come a loro volta in variabile misura plasmati o manipolati dagli organi di informazione, peraltro divenuti sempre meno neutrali[18]. L’ammonimento che, come studiosi, ormai da molti anni non ci stanchiamo di ribadire – e cioè che una politica criminale razionale e ponderata, lungi dal rispecchiare e assecondare con acritica prontezza le reazioni del pubblico, dovrebbe sottoporre a un preventivo filtro critico gli orientamenti punitivi dei cittadini – sempre meno, evidentemente, è riuscito a farsi prendere sul serio nei circuiti della deliberazione politica. Certo, non è da escludere una corresponsabilità da addebitare a noi studiosi, per non essere stati capaci di farci ascoltare convincendo della bontà delle nostre ragioni; ma questo è un discorso da eventualmente approfondire in altra sede. |
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Giugno 2024
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