Contributo di Gian Luigi Gatta e Glauco Giostra, su www.sistemapenale.it
1. La giustizia penale continua ad essere al centro del dibattito politico: si prospetta addirittura una possibile crisi di governo attorno alla riforma della prescrizione del reato (l. n. 3/2019), entrata in vigore all’inizio dell’anno, con il previsto blocco dopo il primo grado di giudizio, non accompagnato da una contestuale riforma del processo penale volta a garantirne la ragionevole durata.
L’elevato livello della contrapposizione, che ha assunto toni sempre più faziosi, rischia di inquinare e di confondere un dibattito la cui centralità, di per sé, sarebbe un dato positivo, tanti e tali sono i problemi dai quali è afflitta la giustizia penale. Non stupisce ma preoccupa, in un simile contesto, l’esito di una recente rilevazione IPSOS di cui ha dato conto Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera: la maggioranza degli intervistati (59%) è favorevole alla riforma ma non ne conosce i contenuti: “nonostante il clamore suscitato, il provvedimento risulta conosciuto da meno di un italiano su due: in particolare, solo il 5% dichiara di conoscerlo nel dettaglio e il 40% nelle sue linee generali. Per converso il 36% ne ha solo sentito parlare e il 19% ignora la questione”[1]. Senza tornare su posizioni e proposte nel merito, già espresse in contributi pubblicati anche su questa Rivista (v. la colonna di destra in questa pagina), si intende in questa sede fornire ai lettori elementi di conoscenza e di valutazione utili per farsi un’opinione più precisa attorno al tema in discussione. E’ un compito al quale non può sottrarsi una rivista dedicata al sistema penale, che per vocazione è destinata sì a un pubblico di giuristi ma che è aperta anche alla comunicazione al grande pubblico. 2. Cominciamo col dire che nel nostro, come in molti altri Paesi, la legge prevede l’istituto della prescrizione del reato in ragione del venir meno dell’interesse pubblico alla repressione dei reati, e quindi all’irrogazione della pena, quando dalla commissione del fatto sia decorso un tempo proporzionato alla sua gravità. Il tempo rimargina la ferita causata dal reato: attenua sempre più, sino a rendere socialmente irrilevante, l’esigenza della punizione. D’altra parte, col tempo matura un diritto all’oblio da parte dell’autore del reato, sul quale non può pendere all’infinito, come una spada di Damocle, la pretesa punitiva dello Stato. 3. Il tempo necessario a prescrivere il reato è di norma pari al massimo della pena stabilita dalla legge e, comunque, non inferiore a sei anni per i delitti e a quattro anni per le contravvenzioni. Per alcuni delitti ritenuti di particolare allarme sociale (ad es., per l’associazione di tipo mafioso, per l’omicidio stradale, per la violenza sessuale) il tempo necessario a prescrivere è raddoppiato. Per ciascun reato è dunque previsto un diverso termine di prescrizione, che inizia a decorre dal giorno in cui, per legge, esso può dirsi commesso. Una prima ipotesi è che il termine di prescrizione del reato sia già decorso prima che abbia inizio un procedimento penale: perché l’autorità giudiziaria non ha mai avuto notizia del reato, o l’ha avuta troppo tardi, quando oramai il reato era già prescritto. In questo caso la prescrizione del reato impedisce l’esercizio dell’azione penale: l’eventuale denuncia o querela sarà, di regola, destinata all’archiviazione. Una seconda ipotesi è che il termine di prescrizione, invece, non sia già decorso prima dell’avvio del procedimento penale: in questo caso, il timer della prescrizione, avviatosi il giorno in cui il reato è stato commesso, continua a decorrere durante il procedimento penale, il cui avvio peraltro manifesta l’interesse dello Stato all’accertamento dei fatti e delle responsabilità. In questa evenienza, come vedremo, il termine di prescrizione subisce un prolungamento. La prescrizione che matura nel corso del processo vanifica l’onerosissimo impegno (tanto più cospicuo quanto più avanzato sia lo stadio in cui interviene) di risorse materiali e umane che esso sempre comporta, mortificando le aspettative di giustizia della collettività. E’ per scongiurare una simile prospettiva che nella trattazione dei procedimenti si dà la priorità a quelli a maggior rischio di prescrizione. Non sempre l’espediente produce gli effetti sperati – come dimostra l’altissimo numero di procedimenti con esito abortivo – a causa dei molteplici problemi che affliggono la giustizia penale. A volerne richiamare alcuni: l’eccessivo carico giudiziario in rapporto alla disponibilità di organico, la farraginosità di alcune procedure (notificazioni, attività di “attraversamento” dalla fase delle indagini al processo, oppure dal primo al secondo grado), le carenze organizzative. Nel processo civile un analogo problema non esiste: l’avvio del processo (ad es., con la domanda di risarcimento del danno) interrompe la prescrizione, che non corre più fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio (art. 2945, co. 2 c.c.). Per ottenere giustizia tramite il processo, nel civile, bisogna farne domanda prima che il diritto da far valere si prescriva; viceversa, per ottenere giustizia tramite il processo penale, bisogna sperare che lo stesso si concluda prima che il reato si prescriva. Ed è facilmente intuibile come la prospettiva della prescrizione del reato, a processo in corso, condizioni le scelte processuali e aggravi il carico giudiziario aumentando la durata complessiva del processo: rappresenta ad esempio un disincentivo all’accesso ai riti alternativi (perché mai patteggiare la pena, oggi, se è probabile la prescrizione del reato, domani?) e un incentivo alle impugnazioni (lascia molto da pensare, in questa prospettiva, il fatto che nell’anno appena passato il 67% dei ricorsi per cassazione sia stato giudicato inammissibile). La prescrizione del reato, a processo in corso, è un’anomalia italiana. Esistono Paesi, non meno civili del nostro, come ad esempio la Spagna, nei quali l’avvio del processo penale, attraverso la decisione motivata di un giudice che ritenga fondata l’accusa mossa dal pubblico ministero, interrompe per sempre la prescrizione impedendo che il reato si possa prescrivere (art. 132, co. 2 codice penale spagnolo). Analoga è la situazione negli Stati Uniti, che pure hanno rappresentato per molti altri aspetti un modello per la redazione del nostro codice di procedura penale: nel sistema americano – lo ha ricordato nei giorni scorsi Elisabetta Grande – “l’avvenuto decorso del termine di prescrizione impedisce l’esercizio dell’azione penale per il corrispondente fatto di reato, ma una volta esercitata l’azione penale nei termini, la questione della prescrizione non è più rilevante”. Il problema si sposta sulla rapidità del processo, garantita dalla Costituzione. Altrove, come in Germania – Paese che, al pari del nostro, è tenuto a garantire i diritti fondamentali consacrati nella Cedu, compreso quello della ragionevole durata del processo (art. 6 Cedu) – la prescrizione del reato cessa definitivamente di decorrere dopo la sentenza di primo grado, indipendentemente dal fatto che si tratti di condanna o di assoluzione (§ 78b, co. 3 del codice penale tedesco). 4. Nel nostro Paese, la prescrizione del reato, possibile a processo in corso, può subire sospensioni o interruzioni solo temporanee. La sospensione si verifica in situazioni di forzata inattività dell’autorità giudiziaria: ad es., quando è necessaria una autorizzazione a procedere, quando vi è un impedimento delle parti o dei difensori, quando il giudice sollevi una questione di legittimità costituzionale o investa la Corte di Giustizia dell’U.E. La sospensione funziona come una sorta di parentesi nel termine di prescrizione del reato: una volta cessata la causa di sospensione, la prescrizione riprende il suo corso e il tempo decorso anteriormente al verificarsi della causa sospensiva si somma al tempo decorso dopo che tale causa è venuta meno. Le cause di sospensione del processo ne comportano un allungamento della durata senza però incidere sul termine di prescrizione del reato. Diverso è il discorso per le cause che comportano l’interruzione della prescrizione: si tratta di determinati atti dell’autorità giudiziaria, individuati dalla legge, che manifestano l’interesse dello Stato ad accertare fatti e responsabilità (ad es., l’interrogatorio dell’imputato, l’ordinanza che applica misure cautelari, la richiesta di rinvio a giudizio, ecc.). La prescrizione interrotta ricomincia a decorrere dal giorno dell’interruzione, ma il termine di prescrizione del reato non può essere prolungato, di norma, oltre un quarto. La legge fissa pertanto un termine massimo al prolungamento della prescrizione del reato, in presenza di atti interruttivi. Ciò significa che, quando l’autorità giudiziaria non resta inerte e si attiva, un reato che si prescrive in otto anni, ad esempio, si prescrive in dieci anni (otto anni + due anni, pari a un quarto, per effetto dell’interruzione). Prolungamenti più consistenti del termine di prescrizione, in presenza di atti interruttivi, sono previsti per alcune categorie di autori di reato (ad es., per i recidivi) e per alcune figure di reato (ad es., per la corruzione e per altri delitti contro la pubblica amministrazione). 5. Quanto si è detto non vale peraltro per tutti i reati. Esistono infatti reati imprescrittibili: quelli per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti (è ad es. il caso dell’omicidio premeditato). Si tratta dei reati più gravi, per i quali è comminata la pena più severa prevista dall’ordinamento, rispetto ai quali non si determina mai il tempo dell’oblio: la ferita è tanto grave da non poter essere rimarginata dal trascorrere del tempo. Ancora, esistono ulteriori reati di fatto imprescrittibili: si tratta di reati di particolare allarme sociale (previsti dall’art. 51, co. 3 bis e co. 3 quater c.p.p.), per i quali la legge non pone nessun limite al prolungamento del tempo necessario a prescrivere in presenza di atti interruttivi. E’ ad esempio il caso dell’associazione di tipo mafioso (art. 416 bis c.p.) e dell’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti (art. 74 t.u. stupefacenti): basta che l’autorità giudiziaria compia ogni volta un atto interruttivo in prossimità del termine di prescrizione per rendere di fatto imprescrittibile il reato. Parlare di “abolizione della prescrizione”, per effetto della riforma Bonafede, significa non solo dire qualcosa di inesatto, ma dimenticare che già esistono, da sempre, reati imprescrittibili; che la prescrizione del reato, cioè, non opera per tutti i reati. Questa considerazione, di per sé sola, dimostra che la prescrizione del reato non è strumento indispensabile – e di sistema – per assicurare la ragionevole durata del processo: se così fosse, dovrebbe essere incostituzionale la previsione dell’imprescrittibilità dei più gravi reati previsti nell’ordinamento. Non va forse garantita la ragionevole durata del processo anche all’accusato di omicidio o di partecipazione a un’associazione mafiosa? 6. Per completare il quadro, si deve ora dare conto delle due riforme che, in rapida successione, hanno interessato la prescrizione del reato: la riforma Orlando (2017) e la riforma Bonafede (2019, con decorrenza prevista dal 1° gennaio 2020). Entrambe le riforme muovono dalla costatazione che – dopo l’instaurazione del giudizio (mentre bisogna prendere atto che quasi la metà delle prescrizioni matura prima) – la fase processuale più esposta al rischio della prescrizione del reato è il giudizio d’appello: l’incidenza maggiore della prescrizione si determina infatti nel grado di appello, dove il 24,2% dei procedimenti (uno ogni quattro!) riguarda reati per i quali sopravviene la prescrizione[2]. Mentre l’incidenza della prescrizione del reato in Cassazione è quasi irrilevante (1,7% dei procedimenti)[3], ed è poco significativa nel giudizio di primo grado (circa l’8% dei procedimenti), nel grado di appello il fenomeno ha dimensioni patologiche. Si tratta in realtà di un dato molto disomogeneo sul territorio nazionale: in alcuni distretti, come ad esempio a Roma, la prescrizione ha interessato nel 2019 ben il 48% dei procedimenti definiti in appello (uno su due!)[4]; in altri distretti, come a Milano, ha interessato nello stesso anno solo 2,91% dei procedimenti. Assai eloquente è una tabella di comparazione tra i diversi distretti di corte d’appello, che può leggersi nella Relazione presentata dal Presidente della Corte d’Appello di Palermo, in occasione della recente inaugurazione dell’anno giudiziario[5]. Per svariate ragioni, alcune di sistema, altre organizzative, altre condizionate dal carico giudiziario e dalle carenze di organico, esistono realtà come quella di Roma (sede tra l’altro di importanti procedimenti per corruzione e criminalità organizzata) – ma situazione non dissimile troviamo in sedi come Reggio Calabria, Catanzaro, Bari, Napoli e Venezia – dove presentare appello garantisce un’altissima probabilità di prescrizione del reato. Come pretendere che un difensore non proponga appello o patteggi la pena? 6.1. La riforma Orlando¸ realizzata nel 2017 e ben presto abrogata dalla riforma Bonafede, cercò di porre rimedio a questa situazione dando un anno e mezzo di tempo in più ai giudici di appello per celebrare il giudizio. Quella riforma prevedeva infatti due eventuali e successivi periodi di sospensione della prescrizione, dopo la condanna in primo e in secondo grado, ciascuno per un tempo non superiore a un anno e sei mesi, dipendenti dall’esito di condanna del giudizio. In sostanza, la riforma Orlando concedeva tre anni in più per arrivare a una sentenza definitiva, evitando la prescrizione del reato. Ciò, peraltro, solo in caso di condanna confermata nel grado successivo: la riforma Orlando prevedeva infatti che il proscioglimento dell’imputato o l’annullamento della condanna per vizi procedurali, in appello o in Cassazione, facesse sì che, nel computo del termine di prescrizione del reato, dovesse tenersi conto anche del tempo in cui processo è rimasto sospeso, con conseguente neutralizzazione degli effetti della sospensione. In altri termini, la riforma Orlando prevedeva proprio quel che da più parti – a torto o a ragione non importa – si ritiene oggi improponibile, perché incostituzionale, rispetto a una possibile modifica della riforma Bonafede: diversificare il termine di prescrizione del reato per gli assolti e per i condannati in appello. 6.2. La riforma Bonafede si è spinta oltre la riforma Orlando, che ha contestualmente abrogato: ha infatti previsto l’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado (o il decreto penale di condanna); ha cioè reso impossibile la prescrizione nei giudizi di impugnazione, analogamente a quanto, come si è detto, avviene in Germania. Mentre la riforma Orlando aveva concesso tre anni in più per celebrare i giudizi di impugnazione, in caso di condanna, la riforma Bonafede, senza distinguere tra condanna e assoluzione in primo grado, ha escluso che il reato si possa prescrivere a processo in corso, dopo la conclusione del primo grado di giudizio. Dalla riforma ci si può attendere: a) un taglio di circa il 25% dei reati che annualmente si prescrivono (corrispondente alla percentuale delle prescrizioni dopo il primo grado di giudizio); b) un disincentivo a presentare appello per finalità dilatorie, venendo meno la prospettiva della prescrizione del reato, con conseguente riduzione del numero dei procedimenti pendenti in appello e in cassazione, a beneficio della speditezza del processo in quei giudizi; c) un incentivo ad accedere a riti alternativi (in particolare, al patteggiamento); d) un prolungamento medio della durata dei procedimenti penali. Il timore, da più parti paventato, infatti, è che senza prescrizione, dopo il primo grado, i tempi del processo si allunghino. E’ un timore fondato, per quanto venga forse sottostimato l’impatto della riforma sui giudizi di impugnazione, che si gioverebbero di una verosimile riduzione delle impugnazioni e di un altrettanto verosimile aumento dei riti alternativi. Appare invece eccessivo parlare di processo “senza fine”, tanto più che esistono da sempre reati giuridicamente o di fatto imprescrittibili, e nessuno si è mai posto, in relazione ad essi, il problema di processi infiniti e di imputati “eterni giudicabili”. La riforma Bonafede, volendo provare a valutarla senza pregiudizi, presenta profili positivi o negativi. Cominciamo dagli aspetti critici: è intempestiva (è stata approvata prima ancora che sia stato possibile misurare gli effetti della riforma Orlando); non è accompagnata da riforme strutturali in grado di incidere sulla durata del processo; non distingue tra prescrizione del reato e “prescrizione del processo”. La medesima riforma ha invece il merito di aver limitato le possibilità di prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado, a salvaguardia dell’attività processuale compiuta e dell’interesse della collettività a conoscere l’esito della giustizia amministrata in suo nome: in tal modo almeno riducendo, se non rimuovendo, uno dei fattori della preoccupante sfiducia sociale nella nostra giustizia penale. Oggettivamente, poi, la riforma Bonafede è servita anche ad accendere i riflettori sul fondamentale problema della lentezza del processo penale. 7. Se si riuscisse a celebrare i processi in tempi allineati alla media europea, la prescrizione – limitata ai casi eccezionali di ingiustificata, eccessiva durata – non rappresenterebbe un problema, come dimostra l’esperienza degli altri Paesi. Qualche dato: in Europa il processo penale di primo grado dura in media 138 giorni; quello di appello 143 giorni. In Italia la durata media del processo penale è di 392 giorni in primo grado (quasi tre volte tanto!) e di 840 giorni in appello (quasi sei volte tanto!)[6]. Solo in Cassazione, grazie a uno sforzo organizzativo notevole ed esemplare, il processo penale ha una durata media in linea con gli standard europei (167 giorni). Il nesso tra durata media del processo e tassi di prescrizione del reato è evidente. Basti pensare che là dove il processo in appello dura di meno (13 mesi, pari a 390 giorni, nel distretto di Milano) il numero di procedimenti definiti con la declaratoria di prescrizione del reato è altrettanto inferiore (il 2,91%, in quello stesso distretto). A ben vedere, un problema di lesione del diritto costituzionale alla ragionevole durata del processo esiste a prescindere e ancor prima della riforma della prescrizione. Salvi i casi di tardivo avvio dell’azione penale, la prescrizione del reato è una patologia che si aggiunge ad una patologia. Le relazioni pubblicate in apertura dell’anno giudiziario, da parte delle massime autorità della Cassazione – il Primo Presidente e il Procuratore Generale – danno conto di alcuni fattori che incidono sulla durata del processo penale. 7.1. Anzitutto, lo scarso successo dei riti alternativi. Facciamo parlare la Relazione del Presidente Mammone: “gli uffici GIP/GUP definiscono con riti alternativi soltanto l’11% del contenzioso (7% per patteggiamenti e giudizi abbreviati, 4% per decreti penali irrevocabili), a riprova della scarsa appetibilità di tali soluzioni semplificate” (p. 25). Quanto al giudizio di primo grado, “l’analisi statistica delle definizioni davanti al tribunale (monocratico o collegiale) dimostra uno scarso successo dei riti alternativi. Emerge con tutta evidenza che nel periodo 2018-2019 larga parte di essi è instaurata a seguito del giudizio direttissimo; infatti, circa l’83% dei procedimenti che si avviano con il rito direttissimo vengono definiti con il patteggiamento o l’abbreviato (nel giudizio direttissimo il patteggiamento viene scelto nel 34% dei casi e l’abbreviato nel restante 50%). Da ciò discende che, depurato del giudizio direttissimo, il rito alternativo (abbreviato o patteggiamento) viene scelto soltanto nel 13% dei casi” quando il processo viene avviato a seguito del decreto di citazione a giudizio emesso dal Pubblico ministero. “Le cause di un così scarso successo dei riti alternativi vanno in parte individuate nella durata del processo e nella conseguente aspettativa della prescrizione: di ciò si ha conferma esaminando i casi di successo dei riti alternativi che riguardano, infatti, prevalentemente gli imputati detenuti o sottoposti a misura cautelare per i quali è generalmente improbabile che il giudizio si dilazioni in termini talmente ampi da lambire la prescrizione” (p. 27/28). Sulla stessa linea è la Relazione del Procuratore Generale Salvi: “…se è vero che…è dinnanzi al giudice di primo grado e al giudice per le indagini preliminari che [per lo più, n.d.r.] si consuma la prescrizione, è ormai noto che ciò dipende dal fallimento della scommessa sui riti alternativi, che continuano a mietere una percentuale irrisoria di definizioni. La scommessa è fallita perché l’aspettativa pressoché certa della prescrizione ha reso quella scelta non conveniente, nell’ovvio e legittimo calcolo costi-benefici dell’imputato. Finché la prescrizione sarà, non un evento eccezionale causato dall’inerzia della giurisdizione, ma un obbiettivo da perseguire, nessun rito alternativo sarà appetibile”[7]. 7.2. Se i processi durano troppo, determinando la prescrizione dei reati, è anche perché, come ogni servizio pubblico, per funzionare in modo efficiente la giustizia richiede investimenti da parte dello Stato, ad oggi insufficienti, per quanto anche di recente alcuni sforzi siano stati fatti. Si legge nella Relazione del Presidente Mammone (p. 30) che alla fine del 2019 i magistrati ordinari erano 9008 (in maggioranza donne: 54%) e lo scoperto è del 9,83%. A conti fatti, mancano 885 magistrati. La giustizia si regge non solo sui magistrati, ma anche sull’indispensabile apporto del personale amministrativo (compresi i cancellieri): lo scoperto, in questo caso, è del 22,82%; dato ancor più allarmante in considerazione dell’elevata età media del personale in servizio (54 anni). Lapidario è il commento del Presidente della Corte d’Appello di Roma, nella sua Relazione annuale: “quel che occorre sono uomini e mezzi, non norme”[8]. 8. Ma a prescindere di quali ne siano le cause, se il processo non funziona – se, cioè, non accerta fatti e responsabilità in tempi ragionevoli, prima che il reato si prescriva – è la stessa credibilità del sistema e delle istituzioni dello Stato a risentirne. La sfiducia verso la capacità dello Stato di fare giustizia è un pericoloso fattore di crisi per l’ordinato vivere civile, per il progresso e per la coesione sociale. Ad essere incivile non è un sistema in cui la prescrizione non matura più dopo il primo grado (in molti stati civili avviene questo): è un sistema in cui i diritti e gli interessi, individuali e collettivi, non trovano affermazione e tutela nel processo e per mezzo del processo. Non è la prescrizione ad assicurare la ragionevole durata del processo, questa consistendo nella capacità del processo di pervenire al suo epilogo fisiologico nel tempo strettamente necessario ad assicurarne tutte le garanzie. Il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio è quindi pienamente compatibile con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111 comma 2 Cost.), che significativamente vale anche per il processo civile, nel quale addirittura non esiste una prescrizione processuale. E’ solo per una patologia del sistema che la prescrizione del reato, da noi, funziona da improprio metronomo del processo penale. 9. Le linee programmatiche di una convincente riforma della giustizia penale dovrebbero essere ispirate a un duplice e correlato obiettivo: ridurre i tempi del processo e i casi di prescrizione. La riforma Bonafede ha inciso sul secondo versante, escludendo la prescrizione nei giudizi successivi a quello di primo grado (ancor più radicale sarebbe stata quella riforma, se avesse disposto il blocco dopo la citazione o il rinvio a giudizio, cioè all’avvio del procedimento di primo grado, come in Spagna). La parte mancante della riforma dovrebbe essere ora quella che, attraverso interventi normativi e stanziamento di ulteriori risorse, incida sui tempi di durata del processo, cercando di avvicinarli quanto più possibile alla media europea. Le soluzioni tecniche sono molteplici e richiederebbero di essere studiate e valutate nelle opportune sedi e non nel frettoloso contesto di una perenne diatriba politica. Non è questa la sede per prospettare soluzioni: preme solo dire che l’efficienza non dovrà mai essere perseguita riducendo le garanzie per l’imputato (basti pensare, per fare un esempio tra i tanti, a quanto il sistema si gioverebbe di un’accorta informatizzazione del processo, soprattutto in tema di notifiche). Ma, per restare al problema della disciplina della prescrizione, un aspetto che non ci pare sia stato messo debitamente a fuoco nel dibattito in corso, è l’anomalia rappresentata da una prescrizione del reato che può maturare nonostante il processo sia in atto e lo Stato stia manifestando l’interesse ad accertare fatti e responsabilità, mentre le vittime, e la società con esse, stanno attendendo una risposta alla loro domanda di giustizia. Non vi dovrebbe essere più la possibilità della prescrizione del reato – che come si è detto sanziona il tempo che la collettività ritiene necessario per dimenticare – una volta iniziato il processo, che è il rito della memoria. Vi potranno essere soltanto strumenti per evitare la sua eccessiva durata. La disciplina attuale – su cui neppure la riforma Bonafede interviene – riunisce invece implausibilmente sotto lo stesso compasso temporale il tempo dell’oblìo e il tempo della memoria. Paradossale la conseguenza: per un reato con un termine di prescrizione, ad esempio, di dieci anni il processo può protrarsi senza conseguenze per dodici anni; mentre, se il processo, per tardivo rinvenimento della notizia di reato, iniziasse a distanza di nove anni dal medesimo fatto, cadrebbe sotto la saracinesca della prescrizione dopo poco più di tre anni, cioè decorsi dal reato dodici anni e sei mesi. Cosa abbia a che fare il principio della ragionevole durata con un meccanismo della prescrizione così congegnato è difficile comprendere. Una volta rifondata la disciplina della prescrizione nei termini anzidetti, si dovrebbe ragionare sugli accorgimenti da introdurre per evitare o, almeno, per controbilanciare gli effetti di una eventuale eccessiva durata del procedimento. L’esperienza di altri Paesi suggerisce, tra le tante possibili soluzioni da valutare, quella di termini di fase entro i quali i diversi gradi di giudizio dovrebbero essere celebrati, pena la c.d. prescrizione del processo, e quella, non necessariamente alternativa, di rimedi compensativi per l’irragionevole durata del processo, nella forma di detrazioni dall’ammontare della pena da scontare, in caso di condanna (fermo restando il pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno, già previsto dalla legge Pinto, che continuerebbe a rappresentare l’unico rimedio in caso di assoluzione). Nel 2010, quando fu introdotto il blocco della prescrizione dopo il rinvio a giudizio, in Spagna fu configurata ad esempio, in funzione compensatoria, una circostanza attenuante per la “dilaciones indebidas”, coerente con la consapevolezza che il processo, a suo modo, è pena. L’attenuante, prevista dall’art. 21, n. 6 del codice penale spagnolo, è applicabile in presenza di un ritardo straordinario e indebito, non proporzionato alla complessità del processo e non addebitabile all’imputato stesso. Accanto a questi doverosi interventi compensativi, si potrebbero apprestare strumenti e meccanismi acceleratori in grado di prevenire la patologia oppure accorgimenti per evitare il più possibile che essa si riproduca (ad esempio, prevedendo un obbligo di comunicazione, da parte dell’autorità giudiziaria procedente, del superamento del fisiologico termine di fase, in modo che in seguito si possa sopperire alle carenze di organico che vi abbiano dato luogo, ovvero suggerire una diversa organizzazione dell’ufficio o censurare l’eventuale inescusabile accidia del magistrato procedente). Su queste e su altre possibili soluzioni, una volta che si sia distinto correttamente tra prescrizione del reato e tempi del processo, si può e si deve ragionare. Di certo, comunque, sarebbe fortemente auspicabile che si abbandonassero i toni da crociata e gli indifendibili argomenti spesi nell’attuale dibattito manicheo per lavorare costruttivamente e sinergicamente per cercare di porre rimedio alla patologica durata del nostro processo penale e, una volta riportato a più fisiologiche dimensioni temporali, per cautelarsi contro la sua eventuale, irragionevole durata, quando dovesse eccezionalmente presentarsi. L’occasione che si prospetta – e che sarebbe un vero peccato non cogliere – è in definitiva quella di mettere mano ad una riforma del procedimento penale, rendendolo più rapido ed efficiente, nel rispetto di tutte le garanzie del giusto processo e con ciò realizzandone la ragionevole durata nell’unico modo costituzionalmente ortodosso. [1] N. Pagnoncelli, La riforma della prescrizione piace al 59%. Ma solo un italiano su 5 la conosce nei dettagli, in corriere.it, 7 febbraio 2020. [2] Cfr. La Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019 del Primo Presidente della Corte di cassazione, Giovanni Mammone (p. 29). [3] Ibidem. [4] Cfr. la Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019 del Presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani (p. 76). [5] Cfr. la Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019 del Presidente della Corte d’Appello di Palermo, Matteo Frasca (p. 131). [6] I dati sono tratti dalla citata Relazione del primo Presidente della Corte di cassazione. [7] Intervento del Procuratore Generale della Corte Suprema di Cassazione nell’assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019, p 10. [8] Cfr. la Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019 del Presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani (p. 140). |
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