Nota a G.U.P. Bologna, sent. 9 luglio 2020, giud. Ziroldi Contributo di Matteo Leonida Mattheudakis in sistemapenale.it 1. Il fatto (l’investimento di due pedoni) e le regole cautelari al centro dell’imputazione. Con la sentenza in commento, resa in sede di giudizio abbreviato, il G.U.P. del Tribunale di Bologna ha condivisibilmente assolto una guidatrice a cui si contestava di aver investito con colpa due cercatori di tartufo che stavano percorrendo a piedi con i loro cani una strada extraurbana secondaria dopo il tramonto del sole. Dall’impatto tra l’automobile condotta dall’imputata e i due pedoni era derivata la morte di uno di questi e il ferimento dell’altro, reso incapace di attendere alle ordinarie occupazioni per 40 giorni, cioè per un lasso di tempo appena insufficiente ai fini della piena attrazione del caso nello spettro applicativo della disciplina introdotta dalla l. 23 marzo 2016, n. 41 – già vigente al momento dell’incidente, avvenuto in una sera di maggio del 2017 – che si occupa infatti di tutte le ipotesi di «omicidio stradale» e di quelle di «lesioni personali stradali» che però siano «gravi o gravissime». Il contributo dedica riflessioni ampiamente adesive a una pronuncia di merito che ha assolto una guidatrice alla quale si contestava di aver investito colposamente due pedoni. Il caso e il suo inquadramento da parte del giudice consentono all’autore del commento di soffermarsi su numerose questioni di primaria importanza nell’economia della responsabilità colposa in genere e di quella stradale in particolare. Speciale attenzione è riservata alla fisionomia delle regole cautelari elastiche, alla prevedibilità in concreto dell’evento nonché al principio di affidamento e alla sua applicazione nel caso in esame, che lascia trasparire una convincente valorizzazione dell’autoresponsabilità delle “vittime”. L’imputazione, al di là della riproposizione della tralatizia clausola di stile onnicomprensiva rispetto alla colpa generica («imprudenza, negligenza e imperizia») 1), si basava, a ben vedere, più che altro su profili di colpa specifica, in particolare sull’ipotesi di un’inadeguata modulazione della velocità di marcia al contesto concreto e del mancato impiego dei fari abbaglianti. Le indagini avevano invece escluso esplicitamente una condizione di alterazione dovuta all’assunzione di alcolici o stupefacenti e nemmeno risultava che la guidatrice fosse impegnata in conversazioni telefoniche al momento dell’incidente. La sentenza, che non ha ritenuto provata la responsabilità dell’imputata, si segnala per un approccio attento ai profili di necessaria concretezza del giudizio di prevedibilità dell’evento dannoso, in uno scenario la cui complessità – come ci si accinge a dire – è arricchita dal riferimento a regole cautelari elastiche e dalla violazione di norme del codice della strada da parte delle stesse persone investite, così da richiamare l’attenzione anche sul principio di affidamento. Una più puntuale ricostruzione del contesto fattuale e normativo in cui l’incidente si è verificato risulta fondamentale per cogliere le plurime sfumature della vicenda e quindi saggiare l’effettivo grado di concretizzazione del giudizio di colpa e la tenuta complessiva di tale giudizio. L’incidente si è verificato in una strada di pianura posta al di fuori del centro abitato di un comune della provincia bolognese. Il materiale probatorio disponibile ha fatto emergere le precise condizioni del tratto interessato, in cui la strada è risultata essere «molto stretta, priva di illuminazione pubblica e invasa dall’erba alta» ai lati (p. 5). Le condizioni appena richiamate rendono ragionevole un netto contenimento della velocità di marcia rispetto al limite di 90 km/h vigente (in generale) in quella strada, a maggior ragione in caso di percorrenza dopo il tramonto del sole. Proprio sull’adeguamento della velocità al contesto concreto, come prescritto dall’art. 141 c.d.s., si è infatti concentrata l’ipotesi accusatoria, che però è stata giudicata infondata. La stima ritenuta più attendibile dal Giudice è quella per cui l’automobilista, prima dell’impatto, stesse marciando a 50/55 km/h, quindi a una velocità decisamente inferiore a quella massima consentita e, in definitiva, adeguata alle condizioni che le si presentavano quella sera. L’orario di verificazione dell’incidente, fissato dal Giudice dopo le ore 21, quando la luce del giorno era ormai del tutto svanita, è un aspetto importante della vicenda anche ai fini di una diversa regola cautelare codificata, cioè quella relativa all’impiego dei proiettori di profondità, i quali avrebbero consentito, secondo l’accusa (in ciò confortata dalla “propria” consulenza tecnica), l’avvistamento tempestivo dei due pedoni e quindi la prevenzione dell’evento. Si tratta di uno dei punti più controversi affrontati dalla sentenza, non solo e non tanto perché l’imputata ha riferito di non ricordarsi se al momento dell’impatto ne stesse facendo uso, quanto, piuttosto, perché è stato messo in dubbio, in radice, il carattere vincolante di alcune delle disposizioni che si riferiscono all’uso degli stessi fari abbaglianti. Come prontamente notato dalla difesa della guidatrice, l’art. 153 c.d.s. è categorico nel configurare – per così dire, in negativo – un obbligo di non utilizzo («non devono essere usati») o di “disattivazione” dei proiettori di profondità (che «i guidatori devono spegnere») in determinate condizioni, mentre sembra contemplare una mera facoltà quando dispone che «i proiettori di profondità possono essere utilizzati fuori dei centri abitati quando l’illuminazione esterna manchi o sia insufficiente». La divergenza terminologica si può constatare anche con riferimento alle luci di minor intensità («luci di posizione», «luci della targa», «luci di ingombro» e «proiettori anabbaglianti»), che, a seconda delle circostanze, «si devono» tenere accese. Suggestiva poi è una lettura diacronica del dato normativo, che permette di osservare come l’art. 110 del previgente d.p.r. 15 giugno, n. 393, ma anche la formulazione originaria dell’art. 153 c.d.s., prevedessero un obbligo (nel primo caso addirittura presidiato da una sanzione penale) di ricorso agli abbaglianti sostanzialmente negli stessi casi per i quali oggi è prevista la possibilità del loro impiego. Il Giudice ha impostato la decisione al riguardo ritenendo più verosimile che la guidatrice stesse marciando con i soli fari anabbaglianti accesi. Si è reso quindi necessario prendere posizione sulla doverosità del ricorso ai proiettori di profondità. Su tale aspetto, la sentenza dapprima rileva che «l’imputata faceva legittimamente uso dei soli fari anabbaglianti» sul presupposto già accennato che la normativa attuale, «contrariamente alla disciplina previgente», prevede – questa la sintesi del Giudice – che «il conducente possa utilizzare i proiettori di profondità al di fuori dei centri abitati, quando l’illuminazione manchi o sia insufficiente, ma che tuttavia non sia obbligato a farlo» (p. 5). Appena dopo, però, si trova una considerazione apparentemente poco coerente, in particolare quando si afferma di trovarsi al cospetto, «quindi, di una norma cautelare c.d. elastica, la cui osservanza va gradata in relazione alle circostanze di tempo e luogo» (p. 5). La sentenza non ritorna più esplicitamente sul punto, preferendo in seguito pronunciarsi soltanto sull’efficacia concreta dell’impiego degli anabbaglianti, ma in sede di commento la questione pare meritare almeno qualche cenno di chiarimento. 2. La distinzione tra regole preventive elastiche e fattori concreti di “innesco” dell’obbligo di attuare le cautele. Parlare di norme cautelari elastiche, come fa il Giudice, non significa evocare condotte meramente facoltative. La loro messa in pratica non è rimessa a un giudizio insindacabile del soggetto a cui l’ordinamento le riferisce. La “scelta” che al riguardo 90 1/2021 compie l’agente è pienamente valutabile ai fini del giudizio di colpa, esattamente come quando la pretesa cautelare è espressa in via più perentoria rispetto ai contorni modali della stessa. L’unica differenza è che la difficoltà di predeterminare precisamente la condotta cauta rende preferibile rivolgere un’indicazione di massima – in questo senso elastica – all’agente, lasciando che sia quest’ultimo a modulare i dettagli del proprio comportamento, calibrandolo alla luce delle particolarità del contesto concreto 2). È ciò che l’ordinamento richiede, ad esempio, nell’ambito delle già richiamate disposizioni dell’art. 141 c.d.s., che non prescrivono di marciare a velocità specifiche (che, spesso, valgono soltanto come limite massimo) ma impongono al conducente di «regolare la velocità del veicolo in modo che, avuto riguardo alle caratteristiche, allo stato ed al carico del veicolo stesso, alle caratteristiche e alle condizioni della strada e del traffico e ad ogni altra circostanza di qualsiasi natura, sia evitato ogni pericolo per la sicurezza delle persone e delle cose ed ogni altra causa di disordine per la circolazione» (così il 1° c., seguito da disposizioni che, per lo più, ne declinano il contenuto in determinati casi) 3). Non c’è dubbio che fattispecie del genere, pur se non preconfezionate in tutti i loro dettagli modali, siano dotate di vincolatività – lo dimostrerebbe, peraltro, la previsione di sanzioni amministrative – e, soprattutto, che la loro radicale inosservanza, ma anche, più semplicemente, il loro malgoverno da parte del guidatore, siano elementi suscettibili di integrare la tipicità dell’illecito colposo d’evento in caso di incidente dannoso per terzi. Quanto fin qui considerato sembra alimentare le perplessità sopra affacciatesi sulla conciliabilità delle affermazioni del Giudice, per cui le disposizioni sull’uso dei proiettori di profondità, pur codificando norme cautelari elastiche, non vincolerebbero il conducente, ma gli conferirebbero, sostanzialmente, una facoltà di scelta sul da farsi. A ben vedere, la contraddizione ipotizzata, che sul piano teorico pare effettivamente difficile da superare, non trova riscontro in concreto, poiché entrambi gli assunti su cui si basa paiono suscettibili di lettura differente. Quanto ai profili deontici del ricorso ai fari abbaglianti, non risulta semplice individuare una ragione dell’attribuzione di un “potere” al conducente diversa dal fine di consentirgli un ampio dominio dei profili di rischio, come inequivocabilmente suggerisce la menzione delle circostanze (che evocano una visibilità limitata) in cui l’accensione di tali fari è dichiarata “possibile”. Il significato cautelare della disciplina in esame è quindi riscontrabile in tutte le sue disposizioni richiamate e non soltanto nelle ipotesi in cui è necessario non avere attive tali luci. L’accensione, dunque, non può essere inquadrata come una facoltà esercitabile dal guidatore in piena libertà e quindi insindacabile; quantomeno, non lo è ai fini del giudizio di colpa in caso di verificazione di un incidente. La parte più persuasiva del ragionamento del Giudice sul punto è pertanto quella in cui ritiene di poter parlare di norma cautelare, ma proprio ciò avrebbe suggerito di non sbilanciarsi in una netta divaricazione di potere e obbligo. In condizioni di visibilità ridotta (e in assenza delle cause ostative più volte menzionate, per lo più temporanee), non sembra esatto affermare che in capo al conducente non incomba mai, in concreto, un obbligo di utilizzo degli abbaglianti. Del resto, presupposto dell’accensione è che («fuori dei centri abitati») «l’illuminazione esterna manchi o sia insufficiente». Se si ragiona, in particolare, sulla possibile insufficienza dell’illuminazione esterna, ci si può accorgere che, in sostanza, il legislatore non fa altro che indicare all’utente della strada un modo per compensare quella che è oggettivamente una condizione deficitaria («insufficiente» appunto), in termini di sicurezza, del contesto circostante, a fronte della quale non convince la pretesa di ritagliare comunque (cioè anche a prescindere dall’effettiva accensione dei proiettori di profondità) un’area di rischio consentito. Il menzionato mutamento di formulazione della disciplina rispetto al passato, per quanto sia indubbiamente un elemento suggestivo su cui comprensibilmente ha fatto leva la difesa dell’imputata, sembra quindi destinato a un ridimensionamento; pena, altrimenti, una grave illogicità della disciplina in esame, la quale, più semplicemente, sembra aver inteso responsabilizzare maggiormente il conducente nell’apprezzamento delle circostanze concrete, anche alla luce di una nutrita casistica di eccezioni che prima finivano forse per prevalere, quantitativamente, sulla regola. A questo punto della riflessione dovrebbe pure apparire chiaro che, in ogni caso, non si è in presenza di una vera e propria regola cautelare elastica, perché non si tratta di delegare al destinatario della regola stessa le modalità precise di adeguamento a una strategia preventiva individuata soltanto sommariamente, come è invece nel caso dell’art. 141 c.d.s. in tema di velocità. Qui, più che altro, il legislatore assegna all’agente il compito di verificare il ricorrere, in concreto, dell’Anlass 4), cioè delle riconoscibili condizioni che “innescano” l’obbligo cautelare, ma, una volta stabilita la sussistenza di tali condizioni, la misura di intervento è piuttosto chiara e non va ulteriormente declinata: occorre procedere all’accensione dei proiettori di profondità; né più né meno. Tutt’al più, si potrebbe pensare di valutare l’uso degli abbaglianti in associazione alla velocità di percorrenza 5), ma, ancora una volta, ci si riferirebbe più alle condizioni per la messa in pratica della cautela che alla definizione dei profili modali della stessa. 3. Prevedibilità in concreto e principio di affidamento. La pronuncia va accolta positivamente per ciò che riguarda la valutazione della prevedibilità dell’evento concreto verificatosi, tenendo conto, in particolare, della condotta dei cercatori di tartufo investiti. Nel contegno di questi ultimi sono stati ravvisati plurimi profili di illiceità, tali da indurre il Giudice a riconoscere, in favore della guidatrice, la sussistenza del principio di affidamento 6), che, contrariamente a quanto avviene in non pochi casi in cui se ne trova menzione, non finisce per incontrare limitazioni nella vicenda in esame. Il principio di affidamento è stato dapprima teorizzato proprio nell’ambito della circolazione stradale, in particolare nell’ordinamento tedesco (ove è noto come Vertrauensgrundsatz) del periodo nazionalsocialista, in cui l’aspettativa statuale di fedeltà dei consociati alle regole, comprese quelle cautelari, era un aspetto caratterizzante il sistema. È noto come tale principio si sia sviluppato pure negli ordinamenti liberali contemporanei, in cui rappresenta un capitolo sempre più ineludibile della teoria del reato colposo, considerata l’odierna normalità di una compartecipazione di più soggetti nella gestione della maggior parte delle attività pericolose alla base di una responsabilità penale colposa. Basta infatti guardare ai tre principali settori in cui è contestata la responsabilità per omicidio colposo e lesioni personali colpose, ossia quello sanitario, quello lavorativo e quello stradale, per comprendere quanto sia fisiologico l’intervento sincronico o diacronico di più soggetti sulla medesima sfera di rischio. In tali scenari, il principio di affidamento è in grado di incidere sui contenuti del dovere cautelare, quindi sul perimetro della tipicità colposa, consentendo ordinariamente a ciascuno di non preoccuparsi dell’operato altrui e quindi di confidare che gli altri soggetti con cui si interagisce rispettino le regole di cautela di loro spettanza. È così che, emancipato dal contesto istituzionale in cui è stato concepito, il principio di affidamento ha potuto palesare appieno le sue funzionalità di garanzia individuale in favore del Vertrauende (il soggetto che confida nel corretto operare altrui), declinando sul terreno della responsabilità colposa le istanze dell’art. 27 Cost., ma si è anche rivelato, specialmente in settori come quello sanitario, un fattore di protezione dei beni giuridici coinvolti, permettendo a ciascuno dei partecipanti all’attività plurisoggettiva di dedicarsi al meglio alla propria prestazione e di non disperdere concentrazione e preziose energie in obblighi di controllo di terzi. Occorre riconoscere che, nell’esperienza giudiziaria italiana, quella del principio di affidamento è per lo più la storia di una promessa non mantenuta. In buona parte dei casi in cui il principio ha trovato espressa menzione in Cassazione, per lo più su sollecitazione della difesa degli imputati, i giudici ne hanno poi escluso l’applicazione in concreto, tramite un costante distinguishing volto a evidenziare le peculiarità della vicenda sotto giudizio e quindi la pertinenza di dinamiche di imputazione alternative. Hanno cioè spesso prevalso le eccezioni sulla regola, ossia quelli che sono noti come limiti al principio di affidamento e che possono avere carattere “occasionale”, come quando si è in presenza di segnali indizianti l’inaffidabilità sul piano cautelare degli altri individui con cui si interagisce, oppure carattere “funzionale”, come quando si afferma che soggetti a capo di un’équipe sanitaria sono titolari di una posizione di garanzia di speciale profondità e quindi devono coordinare e verificare le prestazioni altrui7. Ciò che vale la pena aggiungere alla luce delle peculiarità della vicenda in esame è che il principio di affidamento può ben essere riconosciuto anche riguardo all’osservanza di regole indirizzate alle potenziali persone offese del reato colposo. Ciò è meno frequente nell’ambito sanitario, dove normalmente si valuta la fiducia riposta nei confronti di altri professionisti del settore coi quali si collabora nell’interesse di un soggetto terzo, ossia il paziente. Discorso diverso vale, almeno in astratto, in ambiti come quello della sicurezza sul luogo di lavoro oppure quello della circolazione stradale. Il lavoratore, che è il principale “beneficiario” della disciplina antinfortunistica (condensata soprattutto nel d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81), è esso stesso destinatario di regole cautelari volte a prevenire il suo coinvolgimento in un incidente. Analogamente, ogni utente della strada è destinatario di regole di comportamento che hanno (anche) finalità cautelare e il cui mancato rispetto potrebbe essere pregiudizievole non solo per terzi ma pure per sé stessi. Ciò è particolarmente evidente per i pedoni, che sono i soggetti esposti al rischio più elevato per la propria incolumità in caso di scontro con altri utenti della strada. Proprio per questo, la loro condotta deve attenersi a una serie di indicazioni che il codice della strada prevede al fine di evitarne l’investimento 8). Nella vicenda di cui ci si sta occupando, i pedoni erano dediti alla ricerca di tartufi in una fascia oraria, quella notturna, in cui tale attività non è consentita dalla relativa disciplina nazionale (art. 5 l. 16 dicembre 1985, n. 752) e regionale (art. 12 l.r. Emilia Romagna 2 settembre 1991, n. 24). Inoltre e soprattutto, i due uomini percorrevano a piedi in modo illecito una strada di campagna a doppio senso di marcia. La loro condotta era scorretta, in quanto, in assenza di marciapiede, procedevano nello stesso senso di marcia dei veicoli e non in senso opposto, come invece previsto dall’art. 190, 1° c., c.d.s., il quale dispone altresì che, dopo mezz’ora dal tramonto del sole, «ai pedoni che circolano sulla carreggiata di strade esterne ai centri abitati, prive di illuminazione pubblica, è fatto obbligo di marciare su unica fila»; obbligo anche questo violato secondo il Giudice, che ha accertato che i due soggetti investiti «camminavano l’uno di fianco all’altro», peraltro «al centro della carreggiata» (p. 5). La loro visibilità era compromessa pure dall’abbigliamento prescelto, non solo di colore scuro ma persino mimetico, mentre per il Giudice sarebbe stato opportuno, al contrario, indossare un giubbotto catarifrangente 9). A fronte di tale quadro, la sentenza ha ravvisato opportunamente una tenuta del principio di affidamento in capo alla guidatrice, a cui non poteva ragionevolmente richiedersi di mettere in conto una condotta così imprudente da parte dei pedoni. Al di là di ciò che riguarda il grado della colpa “concorrente” delle stesse persone investite, non negata nemmeno dall’accusa – che aveva infatti modellato l’imputazione richiamando la circostanza attenuante ad effetto speciale dell’art. 589-bis, 7° c., c.p., destinata a operare «qualora l’evento non sia esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole» – il principio di affidamento non può qui ritenersi limitato più che altro per via della mancanza di qualsiasi segnale concreto volto a indiziare la presenza delle due persone a piedi. Coglie nel segno un passaggio in cui il Giudice evidenzia che il tratto di strada interessato è in aperta campagna, lontano da abitazioni e che in quel momento, nei dintorni, non c’erano nemmeno auto in sosta, che avrebbero forse potuto accendere un campanello d’allarme – anche qui sembra possibile parlare di Anlass – circa la presenza di pedoni. Questi, dunque, gli argomenti chiave, mentre il divieto di andare in cerca di tartufi in quella fascia oraria sembra valere essenzialmente quale elemento non decisivo di per sé ma richiamabile ad adiuvandum – ne sembra consapevole il Giudice quando si riferisce a un’«imprevedibilità» che (semplicemente) «trova conferma nella disciplina relativa alla raccolta dei tartufi» (p. 6) – inducendo tendenzialmente a scartare una soltanto delle possibili cause della presenza di pedoni (alcune delle quali non certo illecite e nemmeno necessariamente incaute) e quindi a renderne in generale un po’ meno probabile l’incontro. Insistere sulla deroga del principio di affidamento soltanto in presenza di indizi davvero concreti di inosservanza cautelare di terzi sembra condizione indispensabile per poter accettare l’ambigua massima che ampiamente ricorre nel contesto stradale e che anche il Giudice richiama testualmente: «la possibilità di fare affidamento sull’altrui correttezza in tale ambito trova opportuno temperamento nell’opposto principio secondo il quale l’utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui, purché rientri nel limite della prevedibilità» (p. 5) 10). Tutto si gioca, evidentemente, sul senso da attribuire alla prevedibilità della violazione altrui e in particolare sul suo grado di concretezza. Se, infatti, si tende a riconoscere la prevedibilità di un comportamento scorretto dei soggetti con cui si interagisce per il semplice fatto che una condotta del genere, indipendentemente dalla sua probabilità concreta, non può essere radicalmente esclusa in quel contesto, non si procede a ribadire un fisiologico equilibrio tra regola ed eccezioni, ma si finisce, piuttosto, per svuotare del tutto di linfa operativa la prima. A quel punto, il principio di affidamento finirebbe per essere richiamato in favore dell’imputato, quale mera clausola di stile, soltanto quando non avrebbe in realtà più alcuna utilità, cioè nei casi di pressoché assoluta imprevedibilità della condotta inosservante. Se, come si è già avuto modo di constatare, nella vicenda in commento non vi erano elementi tali da indiziare concretamente la presenza di pedoni in quel tratto di strada, l’astratta possibilità di incontrarli non pare sufficiente per sostenere che la conducente dovesse, per ciò solo, adeguare ulteriormente (cioè oltre un già sensibile contenimento della velocità rispetto al limite) la propria condotta di guida, peraltro in maniera tale da far fronte persino allo scorretto posizionamento delle persone sulla carreggiata. L’evento concretamente verificatosi sembra pertanto esulare dal fuoco preventivo – detto altrimenti: dallo scopo di protezione – delle regole cautelari ricostruibili in capo alla guidatrice, finendo per essere attratto in un’area coperta dall’autoresponsabilità delle due vittime 11), le quali “pagano” così la scelta di essersi esposte a un rischio assai difficile da fronteggiare per gli altri utenti della strada incontrabili. 4. Epilogo: il dispositivo assolutorio. Opportunamente, la sentenza si conclude in termini favorevoli all’imputata, in “assonanza” rispetto a una presa di posizione della Cassazione su un caso simile 12) e, soprattutto, in coerenza con la considerazione che il Giudice esprime in apertura della parte dedicata alle vere e proprie motivazioni: «va innanzitutto rilevato come il comportamento tenuto alla guida dall’imputata sia stato del tutto rispettoso delle norme del codice della strada e concretamente adeguato alle particolari condizioni di marcia presenti al momento del sinistro stradale» (p. 5). Una premessa così “liberatoria” avrebbe giusto fatto pensare a un epilogo persino più netto rispetto al ricorso al 2° c. dell’art. 530 c.p.p., su cui il Giudice ritiene “prudenzialmente” di ripiegare – così argomenta – «non essendovi la prova certa che l’evento fosse prevedibile e altresì che l’avvistamento dei due pedoni fosse possibile» (p. 6). A parte le perplessità che può alimentare lo “sdoppiamento” tra prevedibilità dell’evento e possibilità di avvistare i pedoni, come se la seconda non fosse (mentre invece è) strettamente funzionale alla prima, se si matura sin dall’inizio la convinzione che non ci sia violazione cautelare alcuna, allora non si vede perché riabilitare un dubbio sulla possibilità di prevenire comunque la verificazione dell’evento. Infine, il rispetto delle regole cautelari, in quanto tale capace di escludere la tipicità dell’illecito colposo, avrebbe consentito di assumere come formula assolutoria di riferimento quella per cui «il fatto non sussiste». Affermare che l’agente ha rispettato tutte le regole cautelari rivoltegli equivale a smentire ciò che l’imputazione ipotizza quando descrive (proprio) il fatto come affetto da negligenza, imprudenza, imperizia oppure (se non in aggiunta) da violazione di indicazioni preventive positivizzate. Ancor prima di valutazioni sulla concreta rimproverabilità della condotta, viene così a mancare, in radice, la possibilità di considerare l’accaduto come qualcosa di minimamente conforme alla descrizione della fattispecie astratta. A fronte di questa premessa, l’assoluzione perché «il fatto non costituisce reato» (preferita, in genere, per salvaguardare istanze risarcitorie in sede extrapenale alla luce dell’art. 652 c.p.p.), invece che venire in rilievo in tutti i casi di non colposità del comportamento, potrebbe ben essere riservata alle ipotesi di carenza della (mera) dimensione di colpevolezza colposa 13). Note 1 Si tratta di una tendenza che, almeno in ambito sanitario, sembra destinata a cedere il passo a una qualificazione più precisa, alla luce dell’esplicita concentrazione della disciplina vigente di esclusione della punibilità sull’imperizia. In giurisprudenza, almeno rispetto alle motivazioni della sentenza, si tende ora ad esigere una presa di posizione chiara sulla forma di colpa sussistente: «Una motivazione che tralasci […] di specificare di quale forma di colpa si tratti, se di colpa generica o specifica eventualmente alla luce di regole cautelari racchiuse in linee-guida, se di colpa per imperizia, negligenza o imprudenza […] non può, oggi, essere ritenuta satisfattiva né conforme a legge» (Cass. pen., Sez. IV, 22 giugno 2018, n. 37794, in DeJure). In dottrina, di recente, sottolinea il consolidarsi di questo orientamento, pur dando opportunamente conto delle complicazioni connesse alla «frammentazione della colpa in varie distinzioni e suddistinzioni», F. PALAZZO, La colpa medica: un work in progress, in Giustizia Insieme, 11 novembre 2020, par. 4. 2 Riferimento dottrinale fondamentale è G. MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965, p. 237, il quale si riferisce a regole la cui precisazione necessita «di un legame più o meno profondo, e più o meno esteso, con le circostanze del caso concreto». Più in generale, sulla struttura tendenzialmente “aperta” della fattispecie colposa, D. CASTRONUOVO, La colpa penale, Milano, 2009, pp. 162 ss. 3 Nella manualistica, per ulteriori esempi ricavati proprio dalla disciplina della circolazione stradale al fine di mettere a fuoco la distinzione tra regole cautelari rigide ed elastiche, S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale. Parte generale, 2a ed., Bologna, 2017, p. 474. 4 Su questo concetto, in particolare, G. FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, pp. 211 ss., specialmente pp. 217 e 261 ss.; D. CASTRONUOVO, La colpa penale, cit., pp. 595 ss.; F. GIUNTA, Culpa, culpae, in Criminalia, 2018, pp. 582 ss. 5 È evidente che, in condizioni oggettive di visibilità limitata, più la velocità si alza più (proporzionalmente) il guidatore dovrebbe sentirsi indotto a compensare il deficit dell’ambiente esterno ricorrendo proprio ad accorgimenti come l'accensione dei proiettori di profondità, così da conservare un controllo sufficiente dei rischi della guida. 6 Ad oggi, la più compiuta trattazione in lingua italiana sul principio di affidamento resta lo studio monografico di M. MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997. Nella dottrina tedesca, dove l’argomento è stato ampiamente affrontato, inquadrandolo per lo più come un’espressione della teorica dell’erlaubtes Risiko (rischio consentito) – lo testimonia C. ROXIN, Strafrecht. Allgemeiner Teil. Band I. Grundlagen. Der Aufbau der Verbrechenslehre, 4a ed., München, 2006, p. 1070, in particolare nota 35 – si veda ora N. BAUTISTA PIZARRO, Das erlaubte Vertrauen im Strafrecht. Studie zu dogmatischer Funktion und Grundlegung des Vertrauensgrundsatzes im Strafrecht, Baden-Baden, 2017. Tra gli studi di riferimento nella letteratura di lingua spagnola, in particolare, M. MARAVER GÓMEZ, El principio de confianza en derecho penal. Un estudio sobre la aplicación de autorresponsabilidad en la teoría de la imputación objetiva, Cizur Menor, 2009; S. ABRALDES, Delito imprudente y principio de confianza, Santa Fe, 2010. Chi scrive ha avuto modo di soffermarsi sull’argomento in più occasioni, più compiutamente in M.L. MATTHEUDAKIS, Prospettive e limiti del principio di affidamento nella “stagione delle riforme” della responsabilità penale colposa del sanitario, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, pp. 1220 ss., a cui sia consentito il rinvio, più che altro per gli opportuni riferimenti ai passaggi successivi del testo. 7 Evidenziano, anche terminologicamente, il rapporto tra regola ed eccezioni riguardo al principio di affidamento e ai suoi limiti, in particolare, A. MASSARO, Principio di affidamento e “obbligo di vigilanza” sull’operato altrui: riflessioni in materia di attività medico-chirurgica in équipe, in Cass. pen., 2011, pp. 3860 ss.; L. RISICATO, L’attività medica di équipe tra affidamento ed obblighi di controllo reciproco. L’obbligo di vigilare come regola cautelare, Torino, 2013, pp. 71 ss.; A. PERIN, Prudenza, dovere di conoscenza e colpa penale. Proposta per un metodo di giudizio, Napoli, 2020, pp. 247 ss. 8. Per un approfondimento critico della giurisprudenza in argomento, da ultimo, G. MARINO, Il contributo contra se della vittima, con particolare riferimento all’investimento del pedone imprudente, in Leg. pen., 17 gennaio 2020. 9 Il riferimento all’opportunità di indossare un abbigliamento ben più visibile non è ricavato dal Giudice dalla disciplina dell’art. 190 c.d.s., silente al riguardo, parendo piuttosto il risultato di una sorta di applicazione analogica delle misure previste per segnalare un veicolo fermo in condizioni di visibilità limitata. Al riguardo, il combinato disposto dei commi 1 e 4-ter dell’art. 162 c.d.s. prevede infatti che l’apposizione del segnale mobile di pericolo debba avvenire soltanto dopo aver indossato «giubbotto o bretelle retroriflettenti ad alta visibilità». La sentenza sembra mutuare tale prospettiva estensiva da un precedente di legittimità che viene poi richiamato esplicitamente dal Giudice poco dopo per concludere nel senso dell’imprevedibilità dell’evento verificatosi: Cass. pen., Sez. IV, 14 aprile 2016, n. 35834, in Dejure. 10 La sentenza richiamata in associazione a tale massima è Cass. pen., Sez. IV, 6 dicembre 2017, n. 7664, in DeJure. Per una riproposizione del medesimo principio di diritto con riferimento a un caso di investimento di un pedone, Cass. pen., Sez. IV, 10 maggio 2017, n. 27513, per esteso in DeJure (ma commentata, con condivisibili riserve critiche, da A. CAPPELLINI, Circolazione stradale e principio di affidamento: l’impervio cammino della personalizzazione dell’illecito colposo, in Parola alla difesa, 2017, pp. 643 ss.). Più di recente, si veda Cass. pen., Sez. IV, 18 dicembre 2019, n. 138, in DeJure, che aggiunge un passaggio importante per comprendere appieno l’approccio della giurisprudenza in tema di circolazione stradale rispetto al principio di affidamento, che – si precisa – «viene meno allorché l’agente sia gravato da un obbligo di controllo o sorveglianza nei confronti di terzi o, quando, in relazione a particolari contingenze concrete, sia possibile prevedere che altri non si atterrà alle regole cautelari che disciplinano la sua attività: ciò che è quanto si verifica nella materia de qua, in ragione del rilievo che il contesto della circolazione stradale è meno definito rispetto, per esempio, a quello di équipe proprio della responsabilità derivante dall’esercizio delle professioni sanitarie, ma anche in ragione dell’ulteriore rilievo che alcune norme del codice della strada estendono al massimo l’obbligo di attenzione e prudenza, sino a ricomprendervi il dovere dell’agente di prospettarsi le altrui condotte irregolari». Coglie nel segno, dunque, la lettura di quella dottrina che ha da tempo individuato nella particolare disciplina positivizzata nel c.d.s. uno dei fattori decisivi per il limitato riconoscimento del principio di affidamento nel contesto di cui ci si sta occupando. In questo senso, si veda soprattutto M. MANTOVANI, Il principio di affidamento, cit., p. 56, con riferimento all’art. 145 c.d.s., che disciplina sì il diritto di precedenza, ma, altrettanto e con «priorità» – evidenzia l’Autore – prescrive un obbligo di comportamento sostanzialmente antitetico, in particolare per i conducenti con diritto di precedenza: «I conducenti, approssimandosi ad una intersezione, devono usare la massima prudenza al fine di evitare incidenti» (1° c.). Con un certo pragmatismo, si concentra più che altro sugli spazi riconoscibili all’affidamento (almeno) ai fini dell’applicazione dell’«attenuante delle concause» prevista dal c. 7 degli artt. 589-bis e 590-bis c.p. N. PISTILLI, Profili penali della colpa stradale, Milano, 2019, pp. 13, 14 e 125 ss. 11 Oltre ai contributi specifici di A. CAPPELLINI, Circolazione stradale e principio di affidamento, cit., in particolare pp. 646 ss. e G. MARINO, Il contributo contra se della vittima, cit., in particolare pp. 6 ss., si vedano, più in generale sull’autoresponsabilità della vittima, cioè sulla valorizzazione della sua libertà di autodeterminazione ai fini dell’esclusione di responsabilità penale del terzo, O. DI GIOVINE, Il contributo della vittima nel delitto colposo, Torino, 2003, passim (più di recente, in EAD., L’autoresponsabilità della vittima come limite alla responsabilità penale?, in Leg. pen., 13 maggio 2019); S. TORDINI CAGLI, Principio di autodeterminazione e consenso dell’avente diritto, Bologna, 2008, già nella parte introduttiva: pp. 19 ss.; L. CORNACCHIA, La vittima nel diritto penale contemporaneo tra paternalismo e legittimazione del potere coercitivo, Roma, 2012, in particolare pp. 51 ss.; M. VENTUROLI, La vittima nel sistema penale. Dall’oblio al protagonismo?, Napoli, 2015, pp. 207 ss. e, in particolare, pp. 261 ss.; G. CIVELLO, Il principio del sibi imputet nella teoria del reato. Contributo allo studio della responsabilità penale per fatto proprio, Torino, 2017, in particolare pp. 91 ss. e 277 ss.; D. CASTRONUOVO, Profili relazionali della colpa nel contesto della sicurezza sul lavoro. Autoresponsabilità o paternalismo penale?, in Arch. pen. (web), 2019/2; M. HELFER, Paternalismo e diritto penale. Riflessioni sull’autoresponsabilità quale possibile criterio di limitazione della responsabilità penale, in Leg. pen., 9 dicembre 2020, in particolare pp. 8 ss., in cui ampi riferimenti comparatistici, specialmente alle esperienze giuridiche tedesca e austriaca, nell’ambito delle quali il riconoscimento di spazi decisivi all’autoresponsabilità è da tempo maggiormente tangibile rispetto all’Italia; M. RONCO, M. HELFER (a cura di), Diritto penale e autoresponsabilità. Tra paternalismo e protezione dei soggetti vulnerabili, Baden-Baden, Torino, 2020. 12 Cass. pen., Sez. IV, 14 aprile 2016, n. 35834, cit., la quale, nella parte che qui più interessa – la stessa richiamata nella pronuncia che si sta commentando – afferma che «l’art. 141 c.d.s. riguarda esclusivamente gli eventi che ricadono nella sfera di prevedibilità ed il comportamento di un pedone che procede in strada extraurbana, al buio, senza giubbotto retroriflettente e contromano costituisce una condotta che ben potrebbe esulare dalla suddetta sfera di prevedibilità». 13 Tra le indagini dottrinali più approfondite sulle formule di proscioglimento, anche per gli opportuni riferimenti bibliografici, F.MORELLI, Le formule di proscioglimento. Radici storiche e funzioni attuali, Torino, 201. |
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